Autore: Tomasz Kociuba, Voce: Lorella Giampietro, Adattamento video: Marco Staffolani
Ripensiamo per un attimo alla liturgia del mercoledì delle Ceneri. Tutti conoscono la celebre frase che viene pronunciata dal prete nel momento in cui pone le ceneri in testa ai fedeli: memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris (Ricorda, uomo, che sei polvere e nella polvere ritornerai). Sono parole profonde, cariche di significato, in quanto ricordano forse l’unica verità certa che sopravvive all’età del pensiero debole, per ricordare il filosofo Gianni Vattimo: il fatto che si muore. Sembra una ovvietà, ma non è scontata, perché l’atteggiamento che si ha nei confronti della morte è in grado di definire il proprio stile di vita, ha un significato esistenziale (Heidegger). Il Papa nella sua omelia ha paragonato la cenere alla mondanità: lo stile di vita che la mondanità offre è come polvere; basta una folata di vento per farla scomparire. E non ha tutti i torti. Ma che cos’è questa mondanità? E cosa propone il messaggio evangelico?
Concentriamoci sulla mondanità. Essa, nel linguaggio cristiano, può essere definita “la città dell’uomo nel mondo”, contrapposta, per citare Agostino, alla Città di Dio. La città dell’uomo, anche se fondata sul fratricidio di Caino, non è un qualcosa di negativo di per sé, come erroneamente ci viene richiesto dal mainstream di pensare. Il mondo è sostanzialmente neutro, perché la morale è una questione umana. È errato infatti affermare che il cristianesimo disprezzi il mondo, proprio perché esso parla di mondanità, ossia di un mondo dentro il quale c’è l’uomo. Rimane in un certo senso l’unica realtà autenticamente umanistica a nostra disposizione, contro quelle ideologie di cosmo-centrismo pan-ambientalistico che vedono nell’uomo un intruso, un virus, del mondo. L’essere “polvere” dell’uomo, il suo “venire dalla polvere”, ricordato nell’imposizione delle ceneri, afferma una realtà empirica, scientifica: l’uomo è composto di materia, è un essere come tutti gli altri, che si forma dalla natura e naturalmente si decompone. Ma qui sta la scelta, intellettuale e di vita, che riguarda ognuno di noi nel piccolo e la humana civitas nel grande: è “solo” materia, ossia un complesso di cellule ed elementi chimici l’uomo, o è qualcosa di più?
Qui si inserisce il messaggio evangelico, che in senso laico possiamo definirlo una “proposta di impegno”. Il cristiano è intrinsecamente impegnato a dare risposte. Quelle risposte però che trascendono la mondanità.
Viviamo nell’epoca dell’opulenza, dove il desiderio di possesso non riguarda solo la dimensione materiale. Si può possedere anche ciò che non si vede, come accade quando qualcuno si impadronisce della vita di un altro, dominandola con la costrizione o con l’inganno. In un certo senso, gli stessi social ci posseggono, in quanto succhiano via il nostro tempo. Sono agenti di opulenzajQuanti di noi scrollando con il dito il proprio telefono su Tik Tok, si rendono conto di aver buttato via un pomeriggio? Un’evoluzione del consumo già anticipata dal celebre romanzo “Marno” di Michael Ende (1929-1995), dove la Cassa di Risparmio del Tempo immagazzinava il tempo agli uomini, inducendoli ad auto-schiavizzarsi, auto-alienarsi, per la paura di perdere il proprio tempo, per paura che gli altri potessero portarglielo via. Stare a casa con la famiglia, bere una birra con gli amici, fare una passeggiata… Tutte le relazioni umane vengono identificate con un furto (non più la proprietà, ma l’alterità è un furto, per stuzzicare Proudhon). La soluzione la propongono i Signori Grigi, che “si prendono cura” del tempo, lo mettono in banca, e si rivelano poi dei ladri. Quanti oggi,
nella competizione democratica, possono specchiarsi e vedere le stesse cravatte dei Signori Grigi? Quanti venditori di fumo nelle istituzioni?
Ecco dove si colloca il “digiuno”. Digiunare non significa, materialmente, “non mangiare”. Ma significa, più profondamente, “fare a meno” di ciò che è fumo, di ciò che viene dalla cenere e ritorna alla cenere. È strettamente collegato all’elemosina, che vuol dire sempre “fare a meno”, ma di qualcosa che, nonostante appartenga anch’essa alla cenere e ad essa ritornerà, ci è essenziale. Fare a meno di ciò che serve, perché il “mondo”, e quindi il denaro, la proprietà, e tutto ciò che permette alla società di progredire, è il mezzo e non il fine della storia. È un’affermazione che innalza e riconosce al mondo la sua dignità, ma richiama l’uomo al suo essere padrone del mondo, al non lasciarsi schiavizzare o alienare dai bisogni primari, per puntare ancora più in alto.
Dove si trova questa altezza, questa ulteriorità dell’uomo? Nella preghiera, altra grande bandita dal mondo. Ma non nel senso di mera ripetizione di formule, non cioè nella logica della mondanità o nella preghiera come esteriorità e ricompensa dinanzi al mondo. La vera preghiera è nel silenzio, nel nascondimento. È incontro profondo negli abissi del proprio cuore. Perché qui sta la differenza di concezione dell’uomo: un cumulo di cellule, di materia, una “polvere/cenere”, che si decompone, ma che racchiude in sé l’abisso. Un’insondabile dove nessuno può entrare, che rimarrà sempre al di fuori e oltre il mondo. “Perché Dio vede nel segreto” recita per ben tre volte il passo evangelico. La Quaresima, nella società della competizione e delle corse sfrenate verso il progresso, dove non c’è più tempo di fermarsi, il mondo cristiano propone un’eresia: fermarsi. Stare fermi, apparentemente senza fare nulla, è il terreno dove si sviluppa e si perfeziona la mondanità. È questa la proposta cristiana: il coraggio di guardarsi dentro, di fare a meno delle immagini del mondo, di rinunciare (digiunare) alla propria immagine, per cercare un volto al di là del social e dell’apparenza.
