Lorizio: portiamo la forza del Vangelo «nel cuore delle relazioni umane»

Da Avvenire. Roma 19 Aprile 2023. di Mimmo Muolo

Intervista al primo responsabile dell’Ufficio cultura appena costituito dal Pontefice nella diocesi di Roma «Il luogo del sapere teologico è la città e la Chiesa che in essa vive». Le direttive del Papa? Il primato dell’evangelizzazione

La recente costituzione apostolica In ecclesiarum communione, con la quale il Papa ha riformato il vicariato di Roma, ha tra le sue novità l’istituzione di un Ufficio della cultura, il cui responsabile è il teologo Giuseppe Lorizio, ordinario di teologia fondamentale all’Università Lateranense.

Monsignor Lorizio, perché un teologo a dirigere l’Ufficio cultura della diocesi di Roma?

Perché il luogo del sapere teologico non è l’università o la struttura accademica, ma la città e la chiesa che in essa vive. Si tratta di portare la forza del Vangelo nel cuore delle relazioni umane, anche quelle di carattere culturale, onde favorire una fede adulta e pensata ed essere espressione di quella Chiesa ospitale e in uscita che è al centro del magistero di Papa Francesco. Personalmente da più di un ventennio rifletto sulla teologia nella e per la città e ne parlo in diverse mie pubblicazioni. Per me è arrivato il momento di mettere alla prova del reale e verificare quelle acquisizioni teoriche. Si tratta di una sfida affascinante, ma anche rischiosa, perché il termine “cultura” non gode di buona fama negli ambienti ecclesiastici.

Quali direttive le ha dato il Papa in relazione a questo ufficio?

Il “primato dell’evangelizzazione”, espresso a chiare lettere nella costituzione apostolica Praedicate Evangelium, costituisce l’orizzonte dell’agire ecclesiale e delle sue diverse espressioni, compresa l’attenzione alla cultura. Questa l’indicazione che deve ispirare il nostro lavoro, vicina alla rosminiana “carità intellettuale”. In tal senso la cultura non è uno spazio da occupare, ma un luogo da abitare. E si tratta di un compito “missionario” che richiede una teologia altrettanto missionaria.

Che cosa significa in concreto essere missionari nel mondo della cultura?

Ricordando il discorso del Papa alla Curia romana del 2019, significa innanzitutto compiere un atto di umiltà, prendendo atto che oggi, specie nelle grandi città, abbiamo bisogno di “altre mappe, di altri paradigmi”, poiché “non siamo più nella cristianità e la fede non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata”. L’identificazione fra cultura e fede cristiana si è infranta. Siamo perciò chiamati ad inserirci in queste fratture, perché da ferite diventino feritoie.

Una sorta di progetto culturale 2.0, dunque?

Sì, ma parlerei piuttosto di una coraggiosa “rivoluzione culturale”, quale quella auspicata da Veritatis Gaudium. In sostanza la cultura che siamo chiamati ad abitare e a vivere, prima che a proclamare, sarà la “cultura dell’incontro” e della vicinanza su cui insiste Francesco. Non una cultura prevalentemente accademica, elitaria e salottiera, ma cultura intesa come l’insieme delle attività umane (arte, letteratura, scienza, filosofia) in cui si manifesta e di cui si nutre la mentalità di persone e di gruppi e che per questo ne attira l’attenzione.

Con quale compito?

Da un lato leggere e interpretare la mentalità dei nostri contemporanei a partire dalle espressioni della

cultura diffusa e attivare forme di presenza onde mostrare la capacità del Vangelo di accogliere quanto di buono, di vero e di bello viene proposto. Dall’atro allontanare quanto di disumano viene divulgato, mascherato da presunta libertà di pensiero e di azione.

Come fare, specie in presenza di un clima che dall’utero in affitto alla fluidità di genere, all’intelligenza artificiale spesso sovverte in modo radicale l’alfabeto dell’umano?

Un’autentica cultura non può non riflettere ed educare al senso dell’umano. In primo luogo, in prospettiva positiva, ossia rilevando l’emergenza e l’assoluta singolarità dell’essere uomo, ad esempio rispetto al mondo degli animali e delle macchine. In secondo luogo, smascherando i tentativi, appunto culturali, di alienare tale realtà, disperdendo l’immenso valore che le è proprio.

Ci sono già delle linee operative?

Cercheremo di presentare ai diversi organismi pastorali, alle prefetture e ai settori le linee programmatiche e sollecitare attenzione e coinvolgimento dei diversi soggetti. Penso in particolare ai referenti territoriali che andranno a costituire l’equipe diocesana per la pastorale della cultura, chiamata a programmare il lavoro a livello cittadino e diocesano. Quindi bisognerà attivare le collaborazioni.

Ad esempio?

Ad esempio, con l’ufficio per la pastorale universitaria o quello per la pastorale scolastica. Altrettanto dicasi per la comunicazione e per il sito, oltre che per le pagine culturali di Romasette. Importante sarà la collaborazione con la Caritas diocesana, in quanto le persone (soprattutto immigrati) cui si rivolge sono portatrici di culture diverse, che non siamo chiamati a distruggere nella prospettiva di un falso concetto di “integrazione”. Penso poi alla pastorale giovanile e alla formazione del clero, ma non solo, a proposito del rapporto fra dimensione naturale e artificiale dell’esistenza. Così come occorrerà coinvolgere le realtà associative laicali operanti nel campo della cultura.

Roma può fare da esempio, con l’istituzione di questo ufficio, anche alle altre diocesi italiane?

Certamente. La In ecclesiarum comunione impegna la diocesi ad essere esemplare e paradigmatica. Si cercherà di attivare canali di collaborazione con analoghi uffici presenti nelle altre diocesi, in modo da imparare da eventuali iniziative e prospettive positive già attuate o in fase di attuazione.

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