Dalla prefazione di Giuseppe Lorizio al volume di Rocco Salemme: DE FIDE. Rinnovamento culturale e sviluppo teologico del Tractatus oltre la metà del secondo millennio cristiano. Cittadella, 2023, pp. 600.

Il lettore che, magari incuriosito dal titolo, avrà l’ardire di prendere fra le mani questo libro e non vorrà limitarsi a sfogliare/annusare le sue pagine, si ritroverà proiettato in un altro mondo e in un’altra epoca, come se si fosse lasciato guidare da una sorta di macchina del tempo, tale da provocare una sorta di estraneazione dal presente, in cui è chiamato a vivere il quotidiano. Possiamo paragonare la compagnia di questo testo a una promenade fra le vie del centro storico di una meravigliosa Lecce, se non di quella Roma barocca tanto fotografata da turisti più distratti che pensosi. Niente paura: in qualsiasi momento egli potrà abbandonare il veicolo, decidere di scendere e pentirsi di aver acquistato e aperto un testo tanto controcorrente da apparire, soprattutto in certi passaggi, urticante per quel “pensiero unico”, che domina non solo la cultura diffusa, ma in molti casi la stessa teologia contemporanea, poco disponibile a sopportare, tanto meno a supportare, chi osi avanzare pensieri e prospettive diverse, se non alternative, rispetto al mainstream dominante.
Il giovane e promettente teologo Rocco Salemme non teme certo il contraddittorio, avendo ben appreso, dalle sue frequentazioni barocche, l’arte della disputatio e dà alle stampe questa sua notevole fatica al pubblico, non solo teologico, perché da questa lettura possano imparare qualcosa anche i filosofi o gli appassionati del, fino a non molto tempo fa, tanto bistrattato, Barocco e perfino quanti, non condividendone le tesi di fondo, sanno che spesso si apprende più da chi non si lascia omologare e non la pensa come noi, che da coloro che mettono in campo facili e non di rado superficiali consensi.
L’intentio che ha dato vita a questo lavoro è certamente ambiziosa e travalica di molto i limiti cronologici dell’epoca barocca, in quanto l’Autore si propone di disegnare la parabola del rinnovamento, che ha segnato il trattato sulla fede a partire dalla modernità postridentina fino ai nostri giorni. Naturalmente opera delle scelte precise e non si può pretendere da lui una proposta esaustiva. Eppure, sono profondamente convinto del fatto che questo scritto possa rappresentare una possibilità offerta al lettore, oltre quelle proposte dalle arti figurative, dalla musica e dall’architettura, per incrociare il Barocco che ritorna a far sentire la propria voce, continuando a stupire/meravigliare e affascinare gli sguardi e i pensieri, perché «è del poeta il fin la meraviglia (parlo de l’eccellente e non del goffo), chi non sa far stupir vada alla striglia!», come recita l’indimenticabile verso di Giambattista Marino. E di intellettuali da destinare alla striglia siamo circondati e sono stracolme le cosiddette terze pagine dei giornali, che per dovere dobbiamo aprire e talvolta leggere.
Mi ostino a voler presentare quest’opera come un ritorno del Barocco (piuttosto che un nostro rivolgersi a quei lontani secoli) perché, avendo non solo assistito, ma partecipato alla genesi del lavoro, nell’esercizio del compito in altre occasioni magari ingrato – non in questa – del Doktorvater, posso senz’altro indicare il punto prospettico o di Archimede, a cui tutto il percorso è costantemente agganciato: all’analisi del trattato (bisognerebbe dire dei testi delle lezioni tenute prima al Collegio Romano nel 1583, quindi presso l’università di Coimbra nel 1613-14) sulla fede del Doctor eximius et pius quale veniva denominato il grande gesuita spagnolo Francisco Suárez. L’onestà intellettuale di questa giovane promessa della teologia (il Salemme) non le consente di mascherare la propria predilezione per le tesi di questo teologo cattolico fin nelle midolla e, a costo di tirarsi addosso gli improperi postmoderni, prosegue imperterrito per la sua strada.
Mi preme altresì notare come lo spirito del Barocco che fuoriesce da queste pagine non risulta soltanto dal contesto e dai contenuti dell’analysis fidei, ma promana dallo stesso stile in cui sono scritte: uno stile di altri tempi, capace di far percepire a chi legge quella “piega”, che Gilles Deleuze ha magistralmente indicato come cifra identificativa dell’epoca (La piega. Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino 20042). L’imbattersi nelle espressioni forbite del linguaggio qui di seguito adottato, potrà da un lato procurare un profondo godimento intellettuale in chi lo saprà apprezzare, ma anche la ripulsa di chi gradirebbe espressioni più friendly e cameratesche. Quanti arriveranno alla fine saranno ripagati non solo per aver appreso delle tesi, bensì per aver respirato lo spirito di un’epoca, che ha ancora tanto da dire alla nostra.
Certo il Barocco, anche artistico, non ha sempre goduto di buona fama, in primo luogo perché su di esso ha pesato, e in alcuni casi ancora pesa, l’interdetto crociano, del quale Salemme è ben consapevole, essendo tra l’altro corregionale del filosofo, che assegna alle espressioni di questa epoca la qualifica di decadenza e di quel manierismo non solo estetico, ma culturale, che la caratterizzerebbe. A proposito di tale pregiudizio ricordo il dibattito vivace e interessante che si animò allorché si doveva procedere al restauro della cattedrale della mia amata Vieste. Il duomo, espressione di un essenziale romanico pugliese (seconda metà dell’XI secolo) era stato, come si diceva allora, “baroccato” e quindi, per riportarlo al suo stile originario, bisognava rimuovere ovvero distruggere tutto quanto successivamente era stato aggiunto. Simili disputationes si verificavano ogni qual volta si fosse di fronte alla necessità di adottare scelte analoghe in particolare nel restauro delle cattedrali. Le strutture vennero riportate al romanico, ma conservando elementi barocchi che consentono di apprezzare anche l’arte di quel periodo, in particolare nel battistero, in alcune cappelle e nella volta lignea dipinta a tempera. Ed è qui la domanda che mi preme: se lo stile del XVIII secolo può convivere, in maniera apprezzabile e non giustapposta, al romanico medievale, non è il caso che ci adoperiamo perché possa convivere col nostro tempo e col suo linguaggio? Mi sembra questo il tentativo che si compie in questo volume.
All’inattualità rilevata dal Croce, si possono aggiungere ulteriori elementi contrastanti con la Denkform teologica del nostro tempo. In primo luogo, il sapere credente, in ambito cattolico in età barocca, si è espresso assumendo la forma di una tensione sistematica, ma tale da includere gli apporti della grande tradizione patristica e medievale. In tal senso possiamo considerare, in particolare il pensiero del Suárez in profonda sintonia con la modernità filosofica e distonico di fronte al prevalere della frammentazione propria del cosiddetto post o neo-moderno, qualunque cosa significhi.
Altro motivo di dissonanza sta nel rilevare il carattere apologetico, in senso fortemente polemico nei confronti delle istanze della cosiddetta Riforma protestante. In tale orizzonte, chiamati a schierarsi fra Erasmo e Lutero i teologi cattolici dell’epoca non avevano dubbi: il libero arbitrio va strenuamente difeso e incoraggiato. Di tale opzione offre adeguata testimonianza l’analisi della fede che il Nostro articola a partire dal riferimento alla volontà, cui segue l’intellezione. Quanto attuale sia la questione del rapporto fra Umanesimo e Cristianesimo, emana dalla domanda: ma siamo così sicuri che il Cristianesimo sia omologabile all’Umanesimo? L’intento, espresso nel titolo, del Convegno della Chiesa italiana celebrato a Firenze nel 2015 (“In Cristo il nuovo umanesimo”), deve registrare ancora una volta un’occasione perduta per affrontare una questione decisiva per il presente e il futuro della fede. E, a tal riguardo, resta un riferimento importante, per i teologi, la riflessione di Werner Jaeger, recentemente riproposta (Umanesimo e teologia, Vita e Pensiero, Milano 2023).
I pensatori gesuiti, a partire dal Bellarmino, in epoca barocca si trovarono a dover fronteggiare il fideismo, che ai loro occhi si insinuava nelle tesi della scuola domenicana, il cui alfiere era Domingo Báñez, a proposito della disputa de auxiliis. Giustamente Salemme suggerisce che la riflessione sulla fede deve essere innestata sulla enorme tematica relativa alla giustificazione, cui era stato destinato il più importante documento del Concilio di Trento e che innervava la polemica coi Protestanti. E, in tale contesto, non poteva non venire a galla la questione del soprannaturale, la cui attualità emerge in particolare nell’altro corno del dilemma: quello che riguarda il naturale. Fondamentale a questo riguardo il riferimento alla creazione e al peccato, sicché nella prospettiva gesuitica, ispirata alla spiritualità del fondatore della compagnia la natura non è distrutta, ma, anche dopo la colpa originaria, conserva la traccia del soprannaturale che l’atto di fede chiama ad esprimersi in quanto tale. Prospettiva certamente rischiosa, ma affascinante che dice tutta la modernità dell’impegno profuso dai Gesuiti nella cultura, nella scienza, nella filosofia e nella teologia. La Fides et ratio, difatti, testimonia un deciso apprezzamento nella opzione armonizzante i due poli, che trova riscontro nell’armonia tra fede e ragione, teologia e filosofia e, guarda caso, evoca il Suárez: «Questo ordinamento degli studi ha influenzato, facilitato e promosso, anche se in maniera indiretta, una buona parte dello sviluppo della filosofia moderna. Un esempio significativo è dato dall’influsso esercitato dalle Disputationes metaphysicæ di Francesco Suárez, le quali trovavano spazio perfino nelle università luterane tedesche» (n. 62).
Va altresì notato proprio a riguardo della modernità del Barocco che la “piega” non va intesa come una sorta di ripiegamento, sul passato, bensì come il piegarsi sulle problematiche del proprio tempo, superando anche per certi aspetti la lezione tommasiana, come mostrano alcuni passaggi decisivi del pensiero suáreziano. E infine, mi piace evocare quanto ho appreso dalla lezione di Costantino Esposito (noto esperto del barocco gesuitico) a proposito del fragile nesso fra grazia e libertà, allorché propone una lettura del pensiero del teologo spagnolo alla luce della vocazione di Matteo del Caravaggio: «La soluzione “barocca” di Suárez è forse uno degli ultimi tentativi di pensare insieme – originariamente – la libertà e la grazia, il naturale e il soprannaturale. Di lì a poco i due termini diverranno sempre più divaricati e alternativi tra loro. Ma proprio negli stessi anni, tra il 1599 e il 1600, appare un’altra opera [contemporaneamente all’opuscolo del Gesuita De concursu et efficaci auxilio Dei ad actus liberi arbitrii] che aiuta a cogliere questo stesso problema in una maniera tanto affascinante, quanto sorprendentemente acuta. Si tratta del quadro raffigurante La vocazione di san Matteo, dipinto da Caravaggio per la Cappella Contarelli nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Che cosa accade in questa rappresentazione? A che cosa chiama il gesto “elettivo” di Cristo? E chi è il Matteo che viene chiamato? Qui il dono della grazia illumina il dramma della libertà» (https://www.fondazionesancarlo.it/conferenza/la-liberta-la-grazia/).
Nel consegnare questo libro di nicchia (ma si tratta di una teca preziosa) al lettore e nell’augurarmi che questi non ceda alla tentazione di scendere dalla macchina del tempo che lo guiderà nell’esplorazione del barocco teologico, alla vigilia dell’emeritato, mi si lasci dire che questo lavoro rappresenta una di quelle rare, ma efficaci soddisfazioni, che rendono affascinante e proficuo il lavoro del docente, esposto in altre molteplici occasioni alla tentazione dello scoramento.
Giuseppe Lorizio
Roma, 31 luglio 2023
memoria di sant’Ignazio di Loyola
