
Di Giuseppe Lorizio su RomaSette 10 Dicembre 2023.
’a rammî ’obed ’abî »… «Mio padre era un arameo errante…” (Deuteronomio 26,5). La formula di fede o “credo storico” del pio israelita, da pronunciarsi unitamente all’offerta delle primizie, ci consegna un prezioso aggancio per continuare a pensare il cammino dei pellegrini in occasione del Giubileo. Il testo non intende interpellare e coinvolgere solo i credenti, ma stimolare e provocare il pensiero stesso e il suo formularsi filosofico nell’orizzonte della modernità compiuta o della post-modernità. In questo senso si può rievocare un interessante elemento della pittura di Marc Chagall, laddove, in diverse sue opere è presente la figura dell’ebreo che erra, inscrivendosi in diversi degli scenari che il pittore rappresenta.
Anche se l’esegesi più recente tende a minimizzare la dimensione cultuale-simbolica del testo, ritenendo di rinvenire in esso una pura e semplice dichiarazione di identità, la lettura “teologica” che proponiamo sulla scorta dell’esegesi precedente ci sembra plausibile e particolarmente significativa ai fini della nostra tematica. L’opposizione tra la figura del nomade e quella del pellegrino che certa letteratura accoglie e propaganda, manca di fondamento biblico-teologico, in quanto il pellegrinaggio cristiano risulta fondato sul nomadismo originario della fede ed è ulteriore rispetto ad esso.
La formula biblica non ci offre un contenuto dottrinale cristallizzato in un sistema concettuale, ma ci racconta una storia, invitandoci a farne memoria. Si tratta di non dimenticare, ossia di non consegnare all’oblio, nel momento della vita sedentaria e mentre si raccolgono e si consumano i frutti della terra promessa, l’essere stati nomadi e pellegrini. La figura dell’arameo errante viene anche plasticamente, simbolicamente e liturgicamente espressa nel suggestivo rituale connesso alla festa delle capanne (sukkot). Ma chi è l’arameo e quale il senso del suo errare?
L’esegesi ci suggerisce un duplice significato connesso al termine arameo (che in ebraico forma una felice assonanza con “mio padre”). Nel suo significato geografico ed etnico si alluderebbe ai contatti di Giacobbe-Israele, attraverso la propria madre e a causa del suo viaggio, con la Mesopotamia (Aram Naharaim), nel suo più profondo senso morale e culturale l’allusione andrebbe verso una caratteristica certamente poco apprezzata degli aramei, popolo nomade e senza patria e per questo anche considerati razziatori e ladri (in Geremia 3,2 è usato nello stesso significato il termine arabo).
La memoria della situazione nomadica che la professione di fede esige ha così una duplice valenza: in primo luogo quella di non attribuire alla propria iniziativa il bene che si sperimenta mentre si colgono i frutti della sedentarizzazione, in secondo luogo l’invito a non coprire di disprezzo colui che vive ancora la situazione dell’erranza, ossia il nomade. Se poi volessimo attribuire un nome proprio all’arameo errante dovremmo ovviamente identificarlo in prima
istanza e immediatamente (visto il prosieguo del racconto) con Israele-Giacobbe e, con riferimento più ampio, a colui che ebrei, islamici e cristiani, unanimemente considerano il padre della fede: Abramo, che abitava Canaan “come straniero” (Genesi 17,8).
