La serietà dell’errare e il dinamismo della fede

In quanto credenti nel Dio del Signore Gesù Cristo, l’esperienza nomadica ci appartiene altrettanto originariamente, poiché all’errare abramitico possiamo facilmente accostare il vagare di Maria e Giuseppe ( Lc 2,7) che depongono il neonato in una mangiatoia «perché non c’era posto [ou topos = nessun posto = utopia] per loro nell’albergo» e il nomadismo del Figlio dell’uomo, che, a differenza delle volpi e degli uccelli, «non ha dove posare il capo» ( Mt 8,20 / Lc 9,58). Per accostare il Natale possiamo anche ricordare come il farsi carne del Verbo e il suo abitare fra noi fa riferimento ad una dimora che di fatto è una tenda (originariamente la “tenda del convegno”), come suggerisce il greco dei LXX, che riprende l’ebraico della shekinah ( Gv 1,14).

La condizione dell’erranza si viene così a manifestare come costitutivamente cristica, in quanto alla domanda di Mc 1,35ss. «La risposta è questa: “Andiamocene altrove“. Egli infatti è per essenza colui che si sposta da un luogo all’altro, che si sottrae: “Oggi, domani e il giorno seguente bisogna che io vada per la mia strada”». Di qui consegue, per il pensare credente a) sul piano cristologico: «Il Cristo […] non si lascia mai racchiudere in formule. Quando la formula, nella sua fredda astrattezza, si richiama alla concretezza della libera pienezza di Cristo, c’è motivo di sperare che la riflessione teologica sia efficace»; b) sul piano teo-logico: «Dio infatti non è un sistema e nessun sistema può rappresentare Dio».

Se ora ci soffermiamo a riflettere sul participio, che la formula di fede attribuisce all’arameo, siamo indotti a pensare il triplice senso del verbo abad, che traduciamo con errare, indicando in primo luogo appunto la condizione nomadica dell’arameo, che non ha una meta prestabilita, né un itinerario ben tracciato, in quanto, allorché, nella esperienza abramitica, viene invitato a lasciare la propria terra, non gli viene contestualmente indicata alcuna destinazione, né promesso alcun ritorno.

Storia biblica, ma anche filosofica, se possiamo far credito a Emmanuel Levinas e alla sua contrapposizione tra Ulisse e Abramo: «Al mito di Ulisse che ritorna a Itaca, noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto di partenza».

La serietà drammatica dell’errare risulta ancor più marcata quando consideriamo gli altri due significati del verbo ebraico abad, che significa anche perdersi o smarrirsi: l’arameo errante è colui che vive nel disorientamento, in una condizione di smarrimento o di “perdizione”. È colui che si è perduto o sta per perdersi. Ma nell’esperienza nomadica perdersi significa anche perire (ecco il terzo significato di abad). L’arameo che erra, sta per perire. E, nel momento in cui non è più consegnato al nomadismo, non deve né può dimenticare il suo essere caduco, mortale, perituro.

La coscienza della caducità impedisce ogni ybris religiosa o filosofica, culturale o morale. In questo senso ha ragione Vladimir Jankélévitch, quando dice che la morte, il pensiero della morte è una sorta di metafisica consumata dall’uso di quanti rifiutano la metafisica. E il pensiero della morte esige la conversione che il Giubileo intende perseguire in ciascuno di noi.

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