
Di Giuseppe Lorizio pubblicato su Roma7 28 Gennaio. Il viandante-pellegrino, per non perdersi né perire, ha bisogno non solo di orientamento, ma di nutrimento, come mirabilmente espresso in questo capolavoro poetico di Georg Trakl, Una sera d’inverno: «Quando la neve cade alla finestra / A lungo risuona la campana della sera, / Per molti la tavola è pronta / E la casa è tutta in ordine. / Alcuni nel loro errare / Giungono alla porta per oscuri sentieri. / Aureo fiorisce l’albero delle grazie / Dalla fresca linfa della terra. / Silenzioso entra il viandante; / Il dolore ha pietrificato la soglia. / Là risplende in pura luce / Sopra la tavola pane e vino». Nelle antiche scritture il cibo del popolo nel deserto porta un nome enigmatico, che esprime un interrogativo: man hû’. Nel Nuovo Testamento il viatico dell’errante, si chiama “eucaristia”. Il filosofo francese Jean-Luc Marion recupera la tematica eucaristica: «L’Eucaristia diventa così il banco di prova di ogni sistematica teologica, perché, conglobando tutto, lancia al pensiero la sfida più decisiva». Il filosofo tenta di mettere in luce la dimensione rivelativa del mistero eucaristico, attraverso il concetto di “presenza” come “dono”, introducendo la tematica del “dono senza presente”, che caratterizza il commercio in cui esercita i propri calcoli la ragione economica. Qui al contrario il dono è al presente, in quanto realizza la presenza dell’Altro nella storia e nella vita di ciascuno.
L’atteggiamento adorante di fronte al pane e al vino, consegnati per noi, realizza la “presenza” del Signore e vince ogni idolatria religiosa e speculativa: «Solo nella preghiera diventa possibile una “spiegazione”, cioè una lotta tra l’umana incapacità di ricevere e l’insistente umiltà di Dio che non cessa di colmare. E se non sarà sconfitto in questa lotta, il pensiero non riuscirà mai a vincere speculativamente». Il cibo eucaristico realizza la contemporaneità con Cristo in maniera misteriosa e reale. Il pensatore danese Søren Kierkegaard ammoniva: «[…] fintantoché esiste un credente, bisogna che, per esser divenuto tale, egli sia stato, e che, come credente, sia contemporaneo alla presenza del Cristo né più né meno della generazione a lui contemporanea; contemporaneità che è condizione della fede, o meglio, è la fede stessa. Signore Gesù, ci sia concesso di diventare Tuoi contemporanei, vederTi come e dove realmente passasti sulla terra e non nella deformità di un ricordo vuoto, frutto di un’esaltazione priva di pensiero o nutrita dalle ciance della storia, giacché questo non è l’aspetto dell’umiltà in cui Ti vede il credente e nemmeno potrebbe essere quello della gloria in cui nessuno ancora Ti ha visto». L’eucaristia compie nella presenza reale il miracolo di rendere Cristo nostro contemporaneo, come insegna l’Ecclesia de Eucharistia. Il contesto liturgico suggerisce di porre in rilievo la profonda dimensione sacramentale dell’evento fondatore e tutto ciò va posto in relazione all’eucaristia, “farmaco d’immortalità”. Qui «il memoriale sacramentale dell’evento pasquale è così mediatore tra il corpo risuscitato di Gesù e il corpo del Cristo totale nella grazia e nella gloria”». Nel dono eucaristico Gesù di Nazareth «consegna alla Chiesa l’attualizzazione perenne del mistero pasquale. Con esso istituiva una misteriosa “contemporaneità” tra quel Triduum e lo scorrere di tutti i secoli» (n. 7).
Quella del Signore è presenza che nutre e sostiene il cammino pellegrinante di tutti noi.
