Recensione di G. Ravasi sul libro “L’apologetica come arringa della speranza” di S. Gaburro: docente all’Università Lateranense di Roma e alla Facoltà Teologica di Verona (apparsa su Sole24ore 28 gennaio 2024).

Verità. Il saggio di Sergio Gaburro, con le parole di San Paolo, propone un annuncio primario
in dialogo con orizzonti esterni al cristianesimo
E’ un po’ paradossale: il teologo attuale, quando sente pronunciare il termine «apologetica», rabbrividisce e pazientemente spiega

all’interlocutore che col Concilio Vaticano II ad essa si è sostituita la «teologia fondamentale». Il laico dalla fede incerta o persino l’agnostico spesso si rivolge a chi ora scrive queste righe (ma non solo) chiedendo un testo chiaro e netto di argomentazioni razionali sulla legittimità del credere, in pratica un trattato di apologetica. Com’è noto, l’«apologetica», dal greco apologhía «discorso in difesa», elabora un dossier di argomentazioni razionali «in difesa» delle verità cristiane da portare davanti al tribunale della ragione. Semplificando, l’apologetica si muove sul tracciato razionale per dimostrare l’esistenza di Dio e del suo rivelarsi, prescindendo dal contenuto della rivelazione stessa.
Si tratta, quindi, di un percorso filosofico-storico posto al servizio della fede e della teologia: nell’antica terminologia si parlava di praeambula fidei, cioè di riflessioni preliminari al discorso di fede. Tendenzialmente ci si muoveva in polemica coi negatori, i cosiddetti «razionalisti». La «teologia fondamentale», invece, intende argomentare la verità del cristianesimo attraverso la coerenza e l’evidenza interna del contenuto della rivelazione divina accolta nella fede. La ragione, dunque, è ancora in azione, ma nel perimetro stesso del credere e non ad extra. Questa premessa un po’ didascalica ci spinge a suggerire ai lettori di cui sopra un saggio che non teme di innestare nel titolo quel vocabolo esorcizzato, ma di declinarlo nell’altra direzione teologica: L’apologetica come arringa della speranza, autore Sergio Gaburro, docente all’Università Lateranense di Roma e alla Facoltà Teologica di Verona.
Egli si affida all’apostolo Paolo, così come entra in scena in tre suoi discorsi che l’evangelista Luca riferisce nella sua seconda opera, gli Atti degli apostoli. Certo, l’apostolo prende le difese (apologetica) dell’evento cristiano; e lo fa in contrapposizione polemica coi negatori, mostrando però negli avvenimenti stessi «la solidità degli insegnamenti ricevuti», per ricalcare lo stesso Luca nel suo Vangelo (1,4). Non intende, quindi, dimostrare l’esistenza di Dio ma narrare e confermare il fatto che ha parlato e il suo messaggio. Lasciamo la parola allo stesso Gaburro: «Non si tratta per il cristiano di dare una nuova vernice di modernità al termine “apologetica”, ma di compiere il passaggio dalla polemica contro gli altri, alla narrazione testimoniale con gli altri, così che il credente possa dire non tanto la sua identità quanto piuttosto la speranza che è in lui».
La finale evoca un monito della Prima Lettera di Pietro che invita i cristiani ad essere «preparati sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi; ma questo sia fatto con dolcezza e rispetto e con retta coscienza» (3,15- 16). Perciò, non più un apo-logetica (discorso contro), ma sin-logetica(discorso con), ossia un’argomentazione sull’evento cristiano condotta in un confronto con l’interrogazione e la ricerca di chi è esterno, in un dialogo di ascolto reciproco tra due «grammatiche» differenti di pensiero. Certo, Paolo non si è sempre mosso lungo questa traiettoria. Basti pensare alla fiera premessa della sua Prima Lettera ai Corinzi: «I giudei chiedono segni e i greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1,22-23).
Tuttavia è ancora lui a invitare i cristiani greci di Filippi nell’omonima lettera ad avere come «oggetto del loro pensiero tutto ciò che è vero, nobile, giusto, onesto, amabile, onorabile, ciò che è virtù e merita lode» (4,8), laddove sembra di sentire il Cicerone delle Tuscolanae: «Tutto ciò che è bello, onesto, nobile, pieno di gioia» (5,23.67). E nella Prima Lettera ai greci di Tessalonica sintetizzerà: «Vagliate ogni cosa e tenete tutto ciò che kalón (bello/buono)» (5,21). Ritorniamo, così, alla trilogia esemplificativa che Gaburro estrae dagli Atti degli apostoli a sostegno di un atteggiamento paolino di «sinlogetica» o, ricorrendo ancora alla tecnicalità teologica, di «kerygmatica», ossia di annuncio primario in dialogo con orizzonti esterni al cristianesimo.
Emblematico è il discorso dell’Apostolo all’Areopago di Atene (Atti 17,16-34) indirizzato a un ceto intellettuale: l’oratore svolge un’argomentazione di impronta razionale e culturale (il ricorso al «dio ignoto», alla creazione e alla citazione dei Fenomeni di Arato), ma orientata al cuore del messaggio cristiano, la risurrezione di Cristo. Scelta coraggiosa dialogica, espressione di una «Chiesa in uscita», per usare lo stereotipo di papa Francesco, ma votata all’insuccesso, sia pure non totale perché alla fine aderiscono al cristianesimo un membro dell’Areopago, una nobildonna e altri ateniesi (17,34). Significativa è anche l’allocuzione di Paolo – in attesa di essere trasferito a Roma e deferito alla cassazione imperiale a cui ha appellato come cittadino romano – rivolta al re Agrippa nella residenza del governatore Porcio Festo a Cesarea (Atti 26,2-23).
Interessante per l’originalità del contesto è, infine, l’evento che si consuma a Listra, una colonia romana dell’Asia minore, e che lasciamo scoprire al lettore (Atti 14,8-20). Tutto nasce da un equivoco sorprendente che genera una reazione alterata da parte della folla, pronta a passare – come spesso accade – dall’osanna al crucifige, in questo caso la lapidazione. Ma anche qui è interessante la sintesi di teologia fondamentale che Paolo e il suo discepolo Barnaba riescono a proporre.
