Da Nicea il nucleo della professione di fede

Di Giuseppe Lorizio, 11 Febbraio 2024 su Romasette. Il pellegrino che giunge alla Porta santa per invocare la misericordia del Signore sui propri peccati e su quelli di sorelle e fratelli nella fede, è chiamato a professare il proprio credere attraverso la recita del Simbolo. Per una felice coincidenza il Giubileo che ci attende si celebra a millesettecento anni dal Concilio di Nicea, al quale dobbiamo il nucleo della professione di fede che la Chiesa fa propria nelle celebrazioni eucaristiche festive. Si tratta della cosiddetta “forma lunga” del Credo, per distinguerla da quella breve del Simbolo apostolico. La formula che pronunciamo ogni domenica integra il nucleo dottrinale del Concilio niceno con quello costantinopolitano. Per questo denominiamo il testo “simbolo niceno-costantinopolitano”. L’integrazione dell’altro Sinodo fu necessaria in quanto si trattava di riflettere anche sull’identità della terza persona della Trinità Santissima, ossia lo Spirito Santo.

A Nicea i 318 padri conciliari, convocati dall’imperatore Costantino I, furono chiamati a discutere e convergere sulla questione dell’identità di Gesù, in quanto Figlio del Padre, a fronte dell’eresia di Ario, che riteneva di poter affermare, sulla base di alcuni testi del Nuovo Testamento, una certa inferiorità del Cristo rispetto a Dio Padre. Benché le tesi ariane fossero state già condannate due anni prima, la questione non sembrava del tutto risolta, tanto che a Nicea la formula di fede non fu approvata all’unanimità dal consesso dei vescovi. Cosa apprendiamo dalla lezione di questo decisivo momento storico, che riguarda i cristiani di tutte le confessioni, quindi non solo noi cattolici? In primo luogo, di quanto importante sia per i credenti di tutti i tempi e di ogni latitudine la questione dell’identità di Gesù e quindi della sua divinità. E tale verità chiede sempre di essere riaffermata e riproposta, in quanto l’eresia ariana è sempre in agguato e spesso riemerge nelle convinzioni di persone che si dicono religiose, ma che fanno fatica ad affermare che Gesù di Nazaret è Dio, della stessa natura o sostanza o essenza del Padre. Provvidenziale quindi che in occasioni importanti della vita ecclesiale siamo chiamati a ripetere, non in maniera mnemonica e automatica, la formula di Nicea.

In secondo luogo, il linguaggio e le categorie che ritroviamo nel simbolo, che il contesto culturale odierno può ritenere di difficile comprensione, rivelano la necessità per la fede di esprimersi anche attraverso e nell’incontro con la filosofia greca, in particolare adottando termini come sostanza e persona, che sono entrati nel lessico credente, consentendone una più profonda comprensione, diremmo “metafisica” e una più efficace diffusione nell’orizzonte ellenistico nel quale il Vangelo compie i primi passi, nel tentativo di raggiungere tutte e tutti. L’occasione del Giubileo offrirà la possibilità di esprimere profonda riconoscenza verso la storia e la tradizione che ci ha consegnato un tesoro come il simbolo, che siamo chiamati ad adottare come identificativo della nostra appartenenza a Cristo e alla Chiesa.

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