Le radici del monoteismo e la metafora sponsale

Di Giuseppe Lorizio su Roma Sette (Avvenire 7 Aprile) Il monoteismo di noi cristiani affonda le proprie radici nell’esperienza di Israele, che giunge alla fede in un solo e unico Dio in contrapposizione al paganesimo del contesto culturale e religioso dei popoli vicini. Si tratta di un rapporto unico col proprio Dio, che lo ha liberato dalla schiavitù d’Egitto e viene successivamente pensato come il creatore del cielo e della terra. Possiamo quindi affermare che l’esperienza fondativa dell’esodo precede la fede nella creazione e la determina. Ed è quanto accade anche a noi, chiamati a sperimentare la misericordia di Dio nel Giubileo che ci attende.

Infatti, innanzitutto Dio si è reso presente nella nostra vita liberandoci dalla schiavitù del peccato tramite il battesimo, che la quasi maggioranza di noi ha ricevuto in tenera età, successivamente abbiamo approfondito il nostro credo e recepito l’idea della creazione. La peculiarità del rapporto che Israele percepisce col suo Dio consente il richiamo alla metafora sponsale, elaborata come è noto in maniera tutta particolare nei testi profetici di Osea. Qui «l’amore umano diventa il paradigma per parlare dell’amore di Dio per l’uomo e della risposta umana a Dio che è amore» (G. Ravasi), con un cambio di paradigma che sostituisce alla simbolica di tipo politico, prevalente nella esposizione classica della categoria sinaitica dell’alleanza, una “analogia psicologica”. L’esperienza dell’unicità di Dio in questa prospettiva attiene dunque all’esperienza dell’unicità dell’amore uomo/donna, per cui come nell’esperienza dell’innamoramento l’amato è un unicum per l’amata (e naturalmente viceversa), così Dio è unico per il credente. Le tentazioni dell’idolatria e del politeismo (che il Nuovo Testamento richiama per esempio in quel passaggio di At 17, 16, dove Paolo freme di sdegno al vedere la città di Atene piena di idoli) possono dunque essere lette alla luce della metafora stessa nella linea della prostituzione e dell’adulterio, mentre l’unicità di Dio (e qui il collegamento del testo profetico con l’alleanza sinaitica è evidente) si esprime attraverso l’antropomorfismo della gelosia: «[…] io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso» (Es 20,5). Se situato e interpretato in questa prospettiva, il monoteismo veterotestamentario intanto si carica di un orizzonte agapico che apre alla novità del Dio di Gesù Cristo, mentre d’altra parte la sua acquisizione religiosa prima e teologica poi non risulta provenire da una mera contrapposizione rispetto al politeismo dominante nelle culture e nelle religioni vicine e contemporanee a quelle dell’Israele biblico. Del resto in quel magnifico testo che è il suo commento al simbolo apostolico, Tommaso d’Aquino, nel descrivere i doni della fede, richiama in primo luogo appunto la metafora sponsale, per cui “mediante la fede l’anima si unisce a Dio, per quella sorta di matrimonio spirituale descritto da Osea: «Ti fidanzerò con me in un patto fedele» (Os 2,22)”. La dinamica sponsale qui richiamata consente, all’interno della rivelazione veterotestamentaria una vera e propria reinterpretazione dell’altra metafora teologica, quella concernente la paternità di Dio.

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