Rubrica verso il Giubileo, prof. Giuseppe Lorizio, su Romasette 28 Aprile 2024.

Ma è difficile trovare il fattore e padre di quest’universo, e, trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti», così Platone nel Timeo. L’intuizione della paternità divina rispetto al cosmo e all’uomo era già presente nell’antichità greca, come mostrano i riferimenti di Paolo ai testi stoici: «Salve, Padre, grande meraviglia, grande soccorso degli uomini, tu e la tua prima discendenza» (Arato, Fenomeni, 1-16). Anche Israele percepisce la paternità divina rispetto al suo essere popolo di Dio. La differenza rispetto alla fede cristiana che professiamo nel Simbolo, consiste nel particolare rapporto che lega Gesù di Nazaret al Padre celeste.
Sotto quest’ultimo profilo va notato che il tema della paternità divina nel Nuovo Testamento può essere indagato a partire dai tre luoghi in cui il termine greco “padre” si affianca a quello aramaico abbá [= Mc 14,36 – Rm 8,15 – Gal 4,6]. In particolare, il testo di Mc 14,36, che appartiene alla preghiera del Getsemani, da un lato mostra il contesto orante in cui la metafora di Dio Padre si esprime, dall’altro impedisce un’interpretazione dell’amore paterno di Dio in termini di languore romantico. Il rapporto col padre dice insieme confidenza e tenerezza, ma anche la necessità di compiere il suo volere, sicché il volto paterno di Dio è anche quello della sua volontà, che si esprime e va attuata nell’asprezza e nella fatica della croce. Come sostiene J. Gnilka, nel suo commento, quella che in origine era una forma espressiva infantile (= abbá), all’epoca di Gesù veniva usata già come allocuzione sia per lo stato enfatico (= il Padre), come pure per la formula “mio e nostro padre”, ma solo in rapporto al padre terreno. «L’allocuzione Abbá deve però essere vista come un elemento specifico del linguaggio di Gesù, non limitata solamente a una particolare preghiera. Se l’Abbá si incontra esclusivamente in questo passo della passione, ciò depone a favore dell’immagine di Gesù che la prima comunità ha conservato. Essa potrebbe corrispondere all’atteggiamento con cui egli è entrato nella passione» e quindi indicare insieme confidenza e difficoltà nell’accingersi a compiere la volontà del Padre.
Quanto al contenuto dell’esperienza di Dio- padre va comunque altresì precisato che il nostro linguaggio, anche nella catechesi, dovrà aver premura di operare un adeguato discernimento in rapporto all’esperienza paterna intramondana, onde escludere l’applicazione di fuorvianti meccanismi di sostituzione o di proiezione rispetto alla paternità divina. Piuttosto dovremo, spinti dalla parola di Dio, attivare la dinamica della fondazione così come viene suggerita dalle parole della lettera agli Efesini cap. 3 in cui si trova (unica volta nel Nuovo Testamento) il termine “paternità”, che ci viene suggerito di tradurre con “stirpe”. L’esperienza della paternità divina, nel contesto della rivelazione neotestamentaria va innestata in primo luogo sulla bocca di Gesù (Mc 14, 36) e subordinatamente su quella dei discepoli (Rm 8,15: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”» e Gal 4,6: «E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!»).
