Su RomaSette del 12 Maggio Articolo del prof. Giuseppe Lorizio.

Nel Simbolo di Nicea e Costantinopoli professiamo la paternità “onnipotente” di Dio. Ovviamente è onnipotente colui che può tutto. Si tratta quindi di un attributo esclusivamente divino. Ma proprio tale significato merita di essere approfondito e pensato, onde evitare fraintendimenti e prese di posizione che potrebbero risultare fondamentaliste.
La tarda Scolastica (oggi alquanto bistrattata, ma per molti versi ancora molto istruttiva) amava distinguere fra la potenza assoluta e la potenza ordinata di Dio. La prima lo pone al di là e al di sopra di tutto, affermando l’assoluta libertà della sua volontà e del suo potere, la seconda sospende la prima nel momento in cui, proprio a partire dalla sua potenza assoluta,
Dio ha deciso di creare l’universo e l’uomo, con le loro leggi e la loro struttura, di redimere l’umanità attraverso l’incarnazione, la passione, la morte e la risurrezione di suo Figlio e di diffonderne il messaggio attraverso la Chiesa. E che si tratti di una sospensione e non di una esclusione lo attesta il miracolo, che testimonia la permanenza in Dio della potenza assoluta.
La potenza ordinata di Dio fa sì che Egli non si comporti in maniera arbitraria e capricciosa nei confronti del mondo e dell’uomo. Essa quindi viene a relativizzare, ma non a escludere, la sua potenza assoluta, da cui provengono le sue scelte determinate da un’unica causa e un unico fine: l’amore che Egli è e che espande su tutte le creature, spesso in maniera misteriosa per noi. L’“ordine della carità” (B. Pascal) non toglie nulla all’onnipotenza divina, ma ci aiuta a comprenderla nel suo relazionarsi a noi e al mondo.
Ma c’è un altro aspetto che non possiamo tralasciare: quello della nostra libertà, che viene lasciata integra dall’onniscienza e dall’onnipotenza divine. Dio non è il burattinaio della storia e, creando esseri liberi come gli uomini e gli angeli, si espone alla possibilità che queste sue creature si ribellino e scelgano il male piuttosto che il bene. La sua volontà di bene si esprime allora nel fornirci delle indicazioni in modo che, accogliendole e vivendole, possiamo agire bene e costruire per noi e per il mondo una vita migliore.
Noi poveri mortali conosciamo quello che Dio ha compiuto e come lo ha voluto compiere nella natura e nella storia. Le nostre limitate capacità non ci consentono di penetrare il mistero insondabile che è Dio stesso fino al punto di sapere che cosa possa fare o avrebbe potuto fare di diverso da quello che ha fatto. E tuttavia la nostra intelligenza credente può cogliere la “convenienza” dell’agire di Dio, che per salvarci ha voluto condividere con noi la sofferenza e la stessa morte. Così la redenzione non piove dall’alto di una onnipotenza che non si sporca con la storia e con i suoi drammi, come avveniva nelle tragedie greche, con l’arrivo dall’alto di un deus ex machina che risolveva tutti i problemi, ma è opera di un amore capace di condividere tutto con chi ama. La tradizione riformata insiste sul fatto che Dio si rivela all’incontrario (sub contraria specie), ossia esprime la sua onnipotenza nella debolezza, la sua onniscienza nella follia della croce, la sua eternità nel calarsi nella nostra storia e nel tempo.
