
Come viviamo nel nostro contesto? È forse il nostro tempo più calamitoso rispetto al passato? La domanda non è oziosa, e non prevede solo di organizzare politiche volte al bene dei cittadini, e non soltanto di mitigare le condizioni del clima, dell’inquinamento, delle risorse energetiche e delle politiche militari. Essa è anche un quesito teologico.
In Lc 18,7-8, con riferimento all’escatologia, dopo che Gesù ha asserito unilateralmente a quanti lo ascoltavano di lasciare ogni dubbio sulla fedeltà di Dio, (non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare?), rivolge l’inquietante ma profondo appello alla libertà umana: Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? domanda terribile perché mette in scacco ogni automatismo e merito di salvezza, che si ottiene appunto per fede.
E ancora, un’altra affermazione, più confortante rispetto alla prima, ci riporta ai doni del passato, alla Sua presenza, in carne ed ossa, in mezzo a noi e alla promessa di rimanere con noi sempre. Tale presenza, mediata dallo Spirito, ci dispone a vivere l’attesa del ritorno glorioso del Figlio rendendo ragione della speranza che è in noi (1Pt 3,14). La speranza si apre allora innanzi a noi attraversando la porta Santa, contemplando la figura del figlio di Dio Bambino che si fa carne, e riflettendo che Questi è lo stesso che verrà a giudicarci alla fine dei tempi.
Il monito può trasformarsi finalmente in accorato consiglio: “Non temere!”. È Lui il nato, il morto e il risorto, per noi. Potremo fare fatica a riconoscerlo, potremo vivere il senso di colpa per i nostri peccati e comprendere il male arrecato a noi e agli altri. Ma Lui stesso ci spinge ad uscire dal nostro ego, a credere che è Lui la Speranza, più grande dei nostri limiti e dei nostri no.
La speranza si configura come un’insopprimibile punta di “irrazionalità”, illuminata di fede, anelante di provvidenza, ansiosa dell’eterno, che ci spinge a ricordare e riproporre nell’oggi, tutte quelle volte in cui nella Scrittura, a tanti amici di Dio, è proprio chiesto di “non avere paura” quando avrebbero tutte le ragioni di questa terra per farlo. E allora perché “non avere paura”?
Perché Egli è passato “dentro la storia” fino al suo punto più basso, più nero, più impossibile da comprendere. Fino alla fine, fino a consumare la sua vita personale. Fino al “tutto è compiuto”. Egli ha conosciuto, e nella sua gloria rimane consapevole, di ogni difficoltà di ogni resistenza e di ogni ostacolo. E può parlare con ogni ragione all’uomo perché conosce perfettamente l’essere nel tempo e nella carne, avendo offerto sé stesso come servo di tutti, fin sulla croce. Ma ancor di più: il fondamento della speranza sono i cieli riaperti: dopo essere disceso dal suo trono regale, aver assunto la debolezza umana, attraverserà con noi ogni giorno della storia, fino alla fine della storia “di tutto”, con una presenza misteriosa, per portare al “tutto è compiuto” anche il Regno suo, e con lui i salvati e redenti, coloro che regneranno in eterno con lui.
Che il Giubileo inizi su questa terra, affronti le difficoltà che ci saranno, ma che infine si scateni nei cieli, ove quanto pregustato a fatica sulla terra, sarà lasciato a briglie sciolte nel canto eterno. Un grazie da me e da Don Pino Lorizio a tutti quanti hanno seguito questa rubrica!
