E’ da poco uscito un altro trailer che ci fa gustare in anticipo l’atmosfera del terzo episodio della saga di Avatar, capolavoro di J. Cameron, che sbarcherà nei nostri cinema (probabilmente) a dicembre 2025. Nell’attesa di capire qualcosa in più della nuova trama (conosceremo, dopo la via dell’acqua, quella “del fuoco e delle ceneri”) ritorniamo con il pensiero a Pandora, che abbiamo imparato a conoscere attraverso gli occhi di Jack Sully, marine americano impossibilitato a camminare, e ristabilito nel suo servizio militare attraverso la tecnologia dell’avatar.
Che il mondo avesse bisogno di un’icona cinematografica per esprimere un rinnovato amore alla Terra era chiaro. Nel 2009 oltre agli effetti speciali, Avatar è piaciuto a tutti perché ha riportato al cuore di ciascuno il nostro legame vitale con la natura, legame che abbiamo messo in crisi in nome di un’efficienza tecnologica sempre più esosa di risorse e di energie. Prelevare dal pianeta (senza freni) era lecito, meglio implicito. Siamo dunque diventati, in un certo qual modo, predatori della “nostra madre terra”? Selvaggi come sono (apparentemente) le creature di Pandora?

Direi di no vedendo che qualche cosa negli ultimi 15 anni si sta muovendo. Sarà grazie anche alla riflessione della Chiesa che ha avviato un percorso che ha declinato il tema della pace nella sua istanza più visibile di un’attenzione necessaria all’integrità del creato. Non mancano però defezioni alla nuova generale attenzione all’ambiente che alle volte è soltanto di facciata (direi una moda green) oppure anche ritorni al passato, contro l’evidenza scientifica dei danni provocati all’ecosistema dall’uomo.
Non voglio fare una campagna pubblicitaria “alla differenziata” o alle politiche ambientali per la battaglia ecologica. Piuttosto il “ritorno a Pandora” mi da l’occasione, “religiosamente” parlando, di instradare il lettore sulla ben più impegnativa “buona battaglia” della santità… quella che ha a che fare con l’uomo vecchio … che, biblicamente parlando, fatica a lasciare il posto all’uomo nuovo.
La proposta di Avatar in merito è però più che un semplice richiamo alla natura. Troviamo in essa il fascino dell’alterità, che corrisponde al nostro bisogno di condividere la nostra vita con un equilibrio sociale esterno. Jack Sully che si sottopone alla realtà altra del suo avatar, imparando a vivere come un indigeno del pianeta Pandora, rispettandone la natura, ma anche gli usi e i costumi sociali e la lingua dei Navi’, ne rimane coinvolto direi “anima e corpo”. Rifiuta le logiche commerciali e militari che in qualche modo dalla Terra lo avevano portato sullo sperduto pianeta ai confini dei viaggi umani, e si schiera per la difesa di Pandora. Con i Na’vi, ma anche con gli animali e la natura stessa.

Per adempiere in pienezza la propria richiesta di umanità e socialità è necessario “trasumanare”, o almeno nei propositi rifiutare quel “paradigma terrestre” a cui era abituato, iconizzato dallo spietato colonello Miles Quaritch, patriota americano che pilota armature tecnologiche che ricordano molto i primissimi droni di Robocop.
Anche in quella fantascienza i bipedi corazzati armati di mitragliatrici rotanti, dotati di una “intelligenza minima”, rappresentavano gli interessi di capitalisti tecnologici che non tenevano in nessuna considerazione le conseguenze dell’ibridazione uomo macchina, in particolare i sentimenti e i ricordi del poliziotto Alex Murphy, inconsapevolmente trasformato in una “macchina” della giustizia… di cui ricordiamo l’iconico motto verso i criminali “Vivo o morto, tu verrai con me”.

L’esito finale del primo capitolo della serie di Avatar è dunque “comprensibile”: c’è un trasumanare per abitare completamente nella natura: non si può rimanere umani, c’è qualcosa di corrotto in quella natura, che è meglio abbandonare. E se la tecnologia aveva permesso a Jack di iniziare ad essere “un altro da sé”, (diremmo l’incipit del trasumanare) avendo le lunghe gambe e la lunga coda di quell’organismo geneticamente dagli scienziati terrestri, il militare Sully dovrà riferirsi al mistero di Eywa, la divinità che giace nel “sottosuolo luminoso” di Pandora, perché gli sia concessa la completa e permanente “trasmigrazione” nel corpo alieno.

La domanda che ci facciamo è chiara: è necessario perdersi nel “tutto Natura” per essere “buoni umani”? Per adempiere quelle istanze di pace che sentiamo appartenere alla nostra natura è necessario “rinnegare sé stessi”? Quanto siamo “autorizzati a scoraggiarci” di fronte ai tanti fallimenti “registrati” nella nostra memoria?
La domanda non è peregrina, ma anzi ci fa riflettere molto su quel concetto, o meglio realtà che spesso cerchiamo di tenere a bada e non riusciamo, del peccato… che come i nostri “nobili sentimenti”, ci abita misteriosamente.
Inoltre dobbiamo mettere in questione se un’eventuale “livellamento dell’uomo” allo stesso livello della natura (che interpreterei come una “negativa autolimitazione”) , magari proprio con il fine di evitare “gli apici più brutti” del nostro peccare, cioè un considerarsi/ridursi (solo) ad una parte di quel tutto (fisico) da cui nasciamo. Non è questo piuttosto un abdicare/rinunciare a quel quid, quel di più, intrinseco che solo l’uomo è e possiede rispetto a tutta la natura, e che è in qualche modo necessario alla natura per dirsi “coronata di senso”?
La “proposta” cristiana è più profonda e impegnativa (e liberante) di quanto l’affascinante “armonizzazione con la natura” possa prospettare. Il che, come cristiani, non ci deresponsabilizza nei confronti del resto del creato, anzi … paradossalmente ci impegna maggiormente.
Le opportune riflessioni, che non esplicito per motivi di spazio e tempo, dovranno continuare ed essere condotte a partire da alcuni capisaldi della proposta cristiana, del mistero cristologico, ed ecclesiologico: Dio si è fatto carne, nato morto e risorto come uomo nella nostra realtà naturale. Quell’uomo era/è/sarà, non ha mai smesso di essere, Dio stesso.
E ancora, sarà da indagare il rapporto Dio-uomo-natura alla luce del fatto che Dio abita ancora in maniera “corporale” questa realtà attraverso la realtà sacramentale, in cui proprio semplici elementi della natura, come pane e vino, sono fatti “portatori” di vita, e in qualche modo, mezzi di salvezza per quell’umanità che vive in e di quella natura. La riflessione che ci aspetta è lunga, ma sicuramente si prospetta già proficua.
E ritornando con i piedi per terra, o meglio con la schiena reclinata sul sofà … vi è sfuggito qualche passaggio della trama che non ricordavate? beh, è sempre buona cosa rivedere il trailer … e riprovare quelle emozioni che avevano avviato una profonda riflessione … su ciò che siamo in grado di immaginare … e su ciò che può diventare e sta diventando realtà.
