
Si riflette ancora a 50 anni dall’evento di Roma. Articolo di Giuseppe Lorizio, 26 Febbraio 2024 su AzioneCattolica.it

Si riflette ancora a 50 anni dall’evento di Roma. Articolo di Giuseppe Lorizio, 26 Febbraio 2024 su AzioneCattolica.it
Di Giuseppe Lorizio su RomaSette 25 Febbraio 2024

I simboli della nostra fede, innanzitutto l’apostolico e il niceno-costantinopolitano, si aprono con la parola “credo” che coinvolge e al tempo stesso interpella quanti la pronunziano. Se si riflette in profondità sull’atto di fede e sulle sue implicanze, si scopre che la risposta alla salvezza offerta da Cristo comporta ed implica il coinvolgimento dell’uomo nelle sue dimensioni costitutive, che, schematizzando e semplificando, possiamo indicare come dimensione volitiva, dimensione conoscitiva e dimensione affettiva. Infatti, se riflettiamo sulla nostra esistenza personale ci ritroviamo come espressione di emozioni, riflessioni e decisioni che siamo chiamati quotidianamente a vivere. Un credente che nel vissuto quotidiano della propria fede escludesse una di queste componenti, non vivrebbe in pienezza la propria adesione o sequela al mistero di Cristo. Certamente è possibile che, in base al carattere, alla storia personale, ai vissuti interpersonali dei singoli, si dia la precedenza ad una delle tre suddette dimensioni sulle altre, le quali tuttavia non possono essere in alcun modo escluse col rischio di mutilare la propria fede, che non può ridursi ad un atto solamente intellettuale (= intellettualismo della fede), unicamente volitivo (= fede velleitaria) o esclusivamente affettivo (= sentimentalismo della fede). L’atto di fede nel Dio Unitrino, che la Parola di Dio propone e il simbolo attesta, conduce alla salvezza. È infatti ormai acquisito ad esempio sia da parte protestante che cattolica che non sono le opere a salvarci, ma la fede e che l’agire è la necessaria fioritura del credere, come ha affermato la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, sottoscritta nel 1997 da rappresentanti della Chiesa cattolica e di quella luterana. In essa leggiamo: «Insieme crediamo che la giustificazione è opera di Dio uno e trino. Il Padre ha inviato il Figlio nel mondo per la salvezza dei peccatori. L’incarnazione, la morte e la resurrezione di Cristo sono il fondamento e il presupposto della giustificazione. Pertanto, la giustificazione significa che Cristo stesso è la nostra giustizia, alla quale partecipiamo, secondo la volontà del Padre, per mezzo dello Spirito Santo. Insieme confessiamo che non in base ai nostri meriti, ma soltanto per mezzo della grazia, e nella fede nell’opera salvifica di Cristo, noi siamo accettati da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a compiere le buone opere. Tutti gli uomini sono chiamati da Dio alla salvezza in Cristo. Soltanto per mezzo di lui noi siamo giustificati dal momento che riceviamo questa salvezza nella fede. La fede stessa è anch’essa dono di Dio per mezzo dello Spirito Santo che agisce, per il tramite della Parola e dei Sacramenti, nella comunità dei credenti, guidandoli verso quel rinnovamento della vita che Dio porta a compimento nella vita eterna» (nn. 15-16). Una più profonda e assolutamente non magica o superstiziosa comprensione del tema delle indulgenze, di cui abbiamo già parlato, e della giustificazione per fede dovrebbe consentire di vivere il Giubileo come evento ecumenico e non solo cattolico-romano, nella consapevolezza che abbiamo tutti bisogno di riconciliarci col Signore e tra noi.
Articolo del prof. Giuseppe Lorizio su Coscienza (Rivista MEIC) 2023/4


Recensione a A. Vaccaro-M.Staffolani, Il Teleios. O i sette pregiudizi della tecnologia, Le Lettere, Firenze 2023 sul sito “Filosofia e nuovi sentieri”
La più ampia e nota riflessione sull’essenza della tecnica è senza dubbio stata offerta da Martin Heidegger in La questione della tecnica del 1953. Sulla scia di quel saggio, molti filosofi, nella seconda metà del Novecento, hanno approfondito quasi esclusivamente i rilievi critici mossi da Heidegger nei confronti del fenomeno tecnico, lasciandone sullo sfondo le aperture e le potenzialità benefiche. Nel nuovo Millennio poi la riflessione metafisica sulla tecnica è stata quasi sopraffatta dalla considerazione etica della tecnologia, nelle varie declinazioni di tecno-etica, bioetica, info-etica, etica della comunicazione, ecc.
Adesso Il Teleios. O i sette pregiudizi della tecnologia di Andrea Vaccaro e Marco Staffolani sembra gettare un ponte sopra questi settant’anni e ricollegarsi all’originaria fonte heideggeriana. Gli interrogativi con cui si apre il libro sono emblematici: “Fin dove è giunta la riflessione sull’essenza della tecnologia? È opportuno porsi l’interrogativo sull’essenza della tecnologia oppure è sufficiente concentrarsi sulla già molto dibattuta tecnoetica?” (p. 7). La seconda domanda è decisamente retorica: per gli autori, la considerazione tecno-etica, seppur rilevante, non solo non è sufficiente ma rischia addirittura di mettere in ombra ciò che è più importante in quanto, per l’appunto, essenziale. … continua la lettura “Filosofia e nuovi sentieri”

Di Giuseppe Lorizio, 11 Febbraio 2024 su Romasette. Il pellegrino che giunge alla Porta santa per invocare la misericordia del Signore sui propri peccati e su quelli di sorelle e fratelli nella fede, è chiamato a professare il proprio credere attraverso la recita del Simbolo. Per una felice coincidenza il Giubileo che ci attende si celebra a millesettecento anni dal Concilio di Nicea, al quale dobbiamo il nucleo della professione di fede che la Chiesa fa propria nelle celebrazioni eucaristiche festive. Si tratta della cosiddetta “forma lunga” del Credo, per distinguerla da quella breve del Simbolo apostolico. La formula che pronunciamo ogni domenica integra il nucleo dottrinale del Concilio niceno con quello costantinopolitano. Per questo denominiamo il testo “simbolo niceno-costantinopolitano”. L’integrazione dell’altro Sinodo fu necessaria in quanto si trattava di riflettere anche sull’identità della terza persona della Trinità Santissima, ossia lo Spirito Santo.
A Nicea i 318 padri conciliari, convocati dall’imperatore Costantino I, furono chiamati a discutere e convergere sulla questione dell’identità di Gesù, in quanto Figlio del Padre, a fronte dell’eresia di Ario, che riteneva di poter affermare, sulla base di alcuni testi del Nuovo Testamento, una certa inferiorità del Cristo rispetto a Dio Padre. Benché le tesi ariane fossero state già condannate due anni prima, la questione non sembrava del tutto risolta, tanto che a Nicea la formula di fede non fu approvata all’unanimità dal consesso dei vescovi. Cosa apprendiamo dalla lezione di questo decisivo momento storico, che riguarda i cristiani di tutte le confessioni, quindi non solo noi cattolici? In primo luogo, di quanto importante sia per i credenti di tutti i tempi e di ogni latitudine la questione dell’identità di Gesù e quindi della sua divinità. E tale verità chiede sempre di essere riaffermata e riproposta, in quanto l’eresia ariana è sempre in agguato e spesso riemerge nelle convinzioni di persone che si dicono religiose, ma che fanno fatica ad affermare che Gesù di Nazaret è Dio, della stessa natura o sostanza o essenza del Padre. Provvidenziale quindi che in occasioni importanti della vita ecclesiale siamo chiamati a ripetere, non in maniera mnemonica e automatica, la formula di Nicea.
In secondo luogo, il linguaggio e le categorie che ritroviamo nel simbolo, che il contesto culturale odierno può ritenere di difficile comprensione, rivelano la necessità per la fede di esprimersi anche attraverso e nell’incontro con la filosofia greca, in particolare adottando termini come sostanza e persona, che sono entrati nel lessico credente, consentendone una più profonda comprensione, diremmo “metafisica” e una più efficace diffusione nell’orizzonte ellenistico nel quale il Vangelo compie i primi passi, nel tentativo di raggiungere tutte e tutti. L’occasione del Giubileo offrirà la possibilità di esprimere profonda riconoscenza verso la storia e la tradizione che ci ha consegnato un tesoro come il simbolo, che siamo chiamati ad adottare come identificativo della nostra appartenenza a Cristo e alla Chiesa.
Si continua a riflettere: è ancora possibile usare il sintagma “guerra giusta”? Articolo di Marco Staffolani su settimananews.it 31 gennaio 2024 https://www.settimananews.it/cultura/e-ancora-tempo-di-guerre-giuste/
Recensione di G. Ravasi sul libro “L’apologetica come arringa della speranza” di S. Gaburro: docente all’Università Lateranense di Roma e alla Facoltà Teologica di Verona (apparsa su Sole24ore 28 gennaio 2024).

Verità. Il saggio di Sergio Gaburro, con le parole di San Paolo, propone un annuncio primario
in dialogo con orizzonti esterni al cristianesimo
E’ un po’ paradossale: il teologo attuale, quando sente pronunciare il termine «apologetica», rabbrividisce e pazientemente spiega

all’interlocutore che col Concilio Vaticano II ad essa si è sostituita la «teologia fondamentale». Il laico dalla fede incerta o persino l’agnostico spesso si rivolge a chi ora scrive queste righe (ma non solo) chiedendo un testo chiaro e netto di argomentazioni razionali sulla legittimità del credere, in pratica un trattato di apologetica. Com’è noto, l’«apologetica», dal greco apologhía «discorso in difesa», elabora un dossier di argomentazioni razionali «in difesa» delle verità cristiane da portare davanti al tribunale della ragione. Semplificando, l’apologetica si muove sul tracciato razionale per dimostrare l’esistenza di Dio e del suo rivelarsi, prescindendo dal contenuto della rivelazione stessa.
Si tratta, quindi, di un percorso filosofico-storico posto al servizio della fede e della teologia: nell’antica terminologia si parlava di praeambula fidei, cioè di riflessioni preliminari al discorso di fede. Tendenzialmente ci si muoveva in polemica coi negatori, i cosiddetti «razionalisti». La «teologia fondamentale», invece, intende argomentare la verità del cristianesimo attraverso la coerenza e l’evidenza interna del contenuto della rivelazione divina accolta nella fede. La ragione, dunque, è ancora in azione, ma nel perimetro stesso del credere e non ad extra. Questa premessa un po’ didascalica ci spinge a suggerire ai lettori di cui sopra un saggio che non teme di innestare nel titolo quel vocabolo esorcizzato, ma di declinarlo nell’altra direzione teologica: L’apologetica come arringa della speranza, autore Sergio Gaburro, docente all’Università Lateranense di Roma e alla Facoltà Teologica di Verona.
Continua a leggere “LA SPERANZA NEL CUORE DEI CRISTIANI”
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buona lettura a tutti

Tra coloro che adottano una prospettiva decisamente positiva [nei confronti della tecnologia ci] sono senza dubbio Andrea Vaccaro e Marco Staffolani con il loro Il Teleios. O i sette pregiudizi sulla tecnologia (Le Lettere, Firenze 2023), che anzi rappresenta forse la posizione più spinta dell’ottimismo tecnologico dal versante teologico. Le loro ragioni sono argomentate con linguaggio diretto, lontano dai tecnicismi che ogni disciplina porta con sé, e talvolta anche con una certa ironia. Prendono spunto da quelli che definiscono “pregiudizi sulla tecnologia”, quindi li criticano, tentano di confutarli per poi sostituirli con principi che molto spesso affermano proprio l’opposto.
Il pregiudizio di fondo intorno al quale l’intera riflessione si muove consiste nel credere che l’agire tecnologico sia contrario o in competizione con l’ordine naturale stabilito da Dio. Con riferimenti ai documenti magisteriali, gli autori sottolineano come, nella corretta visione della Chiesa, il cristiano “non si sogna nemmeno di contrapporre i prodotti del proprio coraggio e della propria azione alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale fosse rivale del Creatore; al contrario, è più che persuaso che le vittorie dell’umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. Per il cristiano, molti sono i dubbi, ma un dato è certo: lo sforzo con cui gli esseri umani, supportati dalla tecnologia, cercano, sin dai primordi, di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in sé stesso, corrisponde alle intenzioni di Dio” (p. 11). Il principio di base è la cosiddetta “autonomia delle realtà terrene” per cui la società ha leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare. E questa autonomia non è solo una rivendicazione particolarmente sentita dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore, “nel rispetto delle esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o tecnica”. È una forte rivalutazione della dignità dell’impegno laico: “non è poi trascorso così tanto tempo da quando la Chiesa, dopo la recisa disposizione del Non expedit, ha rivalutato l’apporto dei laici cristiani impegnati in politica a realizzare il bene comune. Ebbene, il tempo sembra maturo per benedire, accanto all’impegno laico cristiano in politica, anche l’impegno laico cristiano in tecnologia, finalizzato a trasformare fisicamente questo mondo in un regno di pace, di giustizia e di beatitudine” (p. 17). Ciò che vale per la politica e la tecnologia è da estendere naturalmente a tutti i piani dell’agire umano. clicca qui per continuare la lettura su Filodiritto Recensione della redazione di Filodiritto.com del libro “Il Teleios…” di Andrea Vaccaro e Marco Staffolani 17 Gennaio 2024

La domanda che ci ha guidato nell’Epifania si può così formulare: come possiamo orientarci nel tempo del disorientamento e della notte del mondo? Chi o cosa guida il pellegrino nel viaggio verso la porta santa? La parola anzi la voce può compiere il miracolo dell’orientamento, per cui non ci perdiamo e non periamo. Si tratta di una voce che si ascolta, ma anche che, in quanto destinata ad orientare, addirittura si vede: «Il popolo vide la voce» (Es 20,18) e il narrante si volta per “vedere la voce” (Ap 1,12). «L’espressione – scriveva l’alessandrino Filone – è altamente significativa. La voce umana è fatta per essere ascoltata, ma la voce di Dio è verità che dev’essere vista. Per quale motivo? Perché ciò che Dio pronuncia non sono parole, ma opera, che l’occhio discerne meglio dell’orecchio». Il tentativo, rischioso e affascinante di far dialogare Atene e Gerusalemme, la cultura dell’ascolto e della parola con quella della visione e del concetto, conserva ancora una sua validità, a causa della perenne ansia che abita chi lo ripropone, senza rassegnarsi di fronte al dilemma di inquietanti e fallaci alternative. Il nostro tempo è il tempo della povertà, ed è diventato tanto povero da non avvertire la mancanza di Dio come mancanza: «La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero» (così Martin Heidegger). Nella postmodernità si realizza e si esprime in termini eclatanti quel fenomeno della “perdita del centro”, che Hans Sedlmayr aveva così efficacemente descritto, assumendo come sintomo dell’epoca il messaggio proveniente dalle arti figurative degli ultimi due secoli e che Oswald Spengler aveva, con espressione felice e coraggiosa, denominato “tramonto dell’Occidente”. L’epoca del disorientamento registra come propria componente non marginale e non meramente epistemologica la frammentazione del senso e del sapere che in esso si produce. Come scrive la Fides et ratio: «E’ da osservare che uno dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale consiste nella “crisi del senso”. I punti di vista, spesso di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si sono talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all’affermarsi del fenomeno della frammentarietà del sapere» (n. 81). In questo contesto di “disperazione epistemologica” e di “dispersione antropologica”, un messaggio particolarmente illuminante le tenebre della notte del mondo è quello che promana dall’espressione che Franz Rosenzweig ha adottato come leitmotiv della propria riflessione e Giovanni Paolo II ha incastonato nella Fides et ratio (n. 15): «Si tratta del mio punto di Archimede in filosofia, che cercavo da lungo tempo […]. Rivelazione è orientamento. Dopo la rivelazione nella natura c’è un “alto” e un “basso”, reale, non più relativizzabile: “cielo” e “terra” […] e nel tempo c’è un “prima” e un “dopo”, reale, stabile. Quindi nello spazio naturale e nel tempo naturale il centro è sempre il punto in cui io in quel momento sono; nello spaziotempo-mondo rivelato il centro è invece un punto fisso inamovibilmente, un punto che non sposto se io stesso mi trasformo o mi allontano: la terra è il centro del mondo e la storia universale si estende prima e dopo Cristo». Detto anzi scritto da un pensatore ebreo non è poco!