A fasi alterne fa capolino nel dibattito teologico la tematica dell’assenza della teologia dall’areopago culturale contemporaneo. Anni addietro si parlava di «esilio» del sapere teologico con grande rammarico degli addetti ai lavori e in funzione direttamente proporzionale alla frustrazione accumulata in quanti fra loro avrebbero aspirato a ben altri riconoscimenti (anche di tipo economico), dimenticando che il sapere di cui si occupano è, e tale deve rimanere a modesto parere di chi scrive, «scientia magis speculativa quam practica», secondo l’illuminante lezione dell’Aquinate.[1]
La contemplazione del mistero è, quindi, il fine ultimo del sapere teologico, che, in quanto tale, è chiamato anche a vestire i panni dell’incomunicabilità. Mi ha sempre particolarmente colpito una suggestiva osservazione di René Guénon, il quale, a fronte di uno sviluppo meramente materiale della civiltà moderna, rivendicava (con modalità per molti aspetti non condivisibili) il senso della ricerca intellettuale e spirituale:
Di Mimmo Muolo, su Avvenire di Sabato 2 Dicembre 2023. Siamo gli ultimi cristiani? La domanda risuona inquietante sotto le volte dell’Aula Magna della Pontificia Università Lateranense. Ma non è uno scenario apocalittico quello si delinea nel corso del convegno organizzato per concludere le celebrazioni dei 250 anni dell’Ateneo dei Papi. Tutt’altro. Anzi come riassume nelle sue conclusioni monsignor Giuseppe Lorizio, che alla Lateranense è professore emerito di teologia fondamentale, può costituire l’occasione per «ripensare l’annuncio del Vangelo nella storia e il ruolo della teologia nell’ambito della nuova evangelizzazione». La domanda era stata posta nella sua relazione da un altro teologo, Brunetto Salvarani. Lorizio nelle sue conclusioni aggiunge una postilla al quesito: «Visto che in altri contesti il cristianesimo fiorisce, siamo forse gli ultimi cristiani del mondo occidentale? Se, erroneamente, identificassimo il cristianesimo con l’Occidente, finito il secondo, dovremmo decretare anche la fine del primo. Ma pur non essendo così, la questione non è da poco, poiché il cristianesimo occidentale non va abbandonato. Grazie alla molteplicità delle sue radici culturali (Roma, Atene, Gerusalemme), esso ci salva infatti dal pericolo del fondamentalismo». E qui viene in primo piano la teologia, cioè quell’intelligenza della fede che permette di avere uno sguardo profondo sul presente e sul futuro, senza cedere ai rischi di un certo politically correct cucinato in salsa ecclesiale. Come ha fatto notare il prorettore Riccardo Ferri, la riflessione teologica articolata attorno a due fuochi, il kerygma (primo annuncio) e il kairos («tempo opportuno, con le sue istanze e provocazioni»), attraverso il contributo dei quattro relatori coinvolti (oltre a Salvarani e Lorizio, anche Elizabeth Green e Kurt Appel) ha permesso di mettere a fuoco alcune problematiche di fondo. La necessaria risposta alle paure degli uomini e delle donne del nostro tempo, ad esempio; l’annuncio originario di Gesù risorto di fronte alle sfide che la natura, spesso stravolta con le catastrofi che ne conseguono, e i rapporti umani, spesso distorti con le guerre e i conflitti che ne derivano, impongono al pensiero credente; il rapporto tra il maschile e il femminile nella Chiesa, oltre che nella società. Soprattutto, però, va intercettata la ricerca di senso che sale dal vissuto di ogni giorno. Per la teologa Giuseppina De Simone, «la teologia deve stare per strada», al fine di riconoscere nella vita delle persone l’azione di Dio, spesso silenziosa e misteriosa», ma non per questo meno reale. Da questa «azione della grazia ha aggiunto la studiosa – nessuno è escluso, perché Dio è vicino a tutti». Tocca dunque al teologo, riconoscere quel «brusio degli angeli» e quelle «tracce di trascendenza» che possono spuntare dove meno te lo aspetti. A tal proposito, De Simone, riprendendo la metafora di un libro di Lorizio, ha ricordato che l’opera dei teologi e delle teologhe è come quella di una spigolatrice, che va cercando i semi del Verbo dispersi nell’esistenza, «perché anche da questi semi si può ricavare il pane della vita». Nel corso della tavola rotonda sul tema “Credere nel tempo oltre il tempo”, è stato poi sottolineato anche il rapporto necessario con le realtà ultime. «Tempo ed eternità – ha ricordato il cristologo Leonardo Paris – non sono in rapporto dialettico fra loro nella visione cristiana, ma in relazione. Il tempo infatti viene da Dio e a Dio ritorna. E anche su questa prospettiva va effettuato un nuovo lavoro teologico». Specie alla luce della filosofia moderna e contemporanea, che sembra aver chiuso invece il Cielo sopra la testa dell’uomo, e di quella che è stata definita la «la metamorfosi di Dio» nel sentire comune (sostituzione di un vago spiritualismo all’idea cristiana di un Dio personale, cioè di un Tu con il quale dialogare). Lo studioso di Hegel, Pierluigi Valenza, ha notato che oggi «il Cielo va colto negli occhi dell’altro» e che proprio perché siamo tutti sotto lo stesso cielo, va pensata una «trascendenza dell’alterità», fondamentale per costruire rapporti più umani. Alla giornata di studio hanno portato il loro saluto e contributo il rettore della Lateranense, monsignor Alfonso Amarante e il decano della Facoltà teologica Angelo Lameri. Una facoltà che sui temi della “teologia evangelizzante”, come direbbe papa Francesco, è all’avanguardia. Monsignor Lorizio ha citato a tal proposito alcuni lavori concernenti la transizione digitale e la sua valenza metafisica e teologica (tra gli altri i dottorati di Marco Staffolani sul principio di causalità e di Giovanni Amendola sulla ragione all’altezza dell’umano), rilanciando poi da un lato la proposta di una teologia mediterranea («siamo ancora troppo tributari di quella tedesca»), dall’altro «l’urgenza, di abitare teologicamente il tempo che ci separa dalla prossima seduta sinodale, offrendo da parte di chi si occupa professionalmente dell’intelligenza della fede contributi relativi allo sviluppo della dottrina cristiana, secondo il dettato di John Henry Newman».
Potrebbe essere questa la domanda alla quale tenta di rispondere il Papa con la sua lettera Motu Proprio Ad Theologiam Promovendam con la quale il primo novembre scorso ha riformato gli statuti della Pontificia Accademia di Teologia, istituzione fondata più di tre secoli fa, nel 1718, che ha per scopo lo studio delle scienze sacre e la formazione di uomini e donne ben preparate, in grado di presentare il messaggio cristiano con le categorie del nostro tempo. Come infatti ricorda san Giovanni Paolo II “La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una verità stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si possa conciliare l’assolutezza e l’universalità della verità con l’inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono” (Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Fides et Ratio, 14 settembre 1998, n.95). […] Ne abbiamo parlato con mons. Giuseppe Lorizio, presbitero e teologo italiano, docente di Teologia Fondamentale alla Pontificia Università Lateranense, attualmente direttore dell’Ufficio Cultura del Vicariato di Roma.
continua a leggere: [di Christian Massaro su Voce isontina 24 Novembre]
Recensione di Simone Caleffi, su Osservatore Romano, 20 Novembre 2023, del libro di Sergio Gaburro, Quando la carne prende la Parola. Per una teologia inquietata dalla Voce
Verso il Giubileo, di Giuseppe Lorizio, edito su ROMA SETTE DOMENICA 29 OTTOBRE 2023
Il fatto che nella nostra esistenza storica viviamo la compresenza di luci e ombre, di bene e male, di peccato e grazia, viene dalla fede cattolica, nella dottrina del Purgatorio, pensato e ritenuto come condizione anche dell’altra vita, fino al giudizio universale. Così come siamo ora, saremo allora e il lavoro su noi stessi, che dobbiamo compiere nell’oggi, può continuare nel domani per renderci tutti, ma proprio tutti, redenti e felici. In questa prospettiva la sofferenza, la solitudine e il dolore non costituiscono per noi un fine. Non è vero che siamo nati per soffrire, ma la sofferenza ci è data perché possiamo recuperare quella libertà che il peccato ci toglie. E dal Purgatorio si può solo andare in Paradiso, quindi si tratta di un luogo di speranza, tanto che la nostra tradizione ci invita a pregare per le anime “sante” del purgatorio. Essere cattolici significa questo: essere profondamente umani. Nel prossimo Giubileo siamo chiamati ad essere “pellegrini di speranza” e possiamo vivere questo impegno, che non può né deve essere ridotto ad uno slogan, nell’esperienza della misericordia, che ci è donata con l’indulgenza. Ma questo percorso non riguarda solo noi, può riguardare anche i nostri fratelli defunti, per i quali siamo chiamati a pregare. Se la loro condizione di redenzione o di dannazione fosse già stabilita, non avrebbe alcun senso pregare per loro, se non quello del farne memoria. La fede cattolica va più in profondità: non solo li ricordiamo, ma condividiamo con loro la misericordia che sperimentiamo, nella “comunione dei santi”, che costituisce e denomina la Chiesa. E non è corretto sostenere che la nostra fede nella purificazione oltre la morte non abbia alcun fondamento né riscontro nella Parola di Dio. Il Catechismo della Chiesa cattolica è molto chiaro a questo riguardo e ci rimanda proprio alle Scritture Sante, che suggeriscono e attestano anche questo aspetto del nostro credere. «La Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti». La preghiera per i defunti è attestata nella Bibbia, ma è vissuta nella comunità praticamente da sempre. «Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: “Perciò [Giuda Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato” (2 Mac 12,45). Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio. La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti: «Rechiamo loro soccorso e commemoriamoli. Se i figli di Giobbe sono stati purificati dal sacrificio del loro padre, perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro qualche consolazione? […] Non esitiamo a soccorrere coloro che sono morti e ad offrire per loro le nostre preghiere» (CCC1032, la citazione è tratta dall’omelia sulla I lettera ai Corinzi di San Giovanni Crisostomo). Ma anche questo aspetto non marginale della nostra fede, chiede di essere vissuto non con atteggiamento magico, ma nella prospettiva della grazia e della condivisione dei beni spirituali che essa ci porge e che durante il Giubileo vivremo in maniera particolarmente intensa.
Verso il Giubileo, di Giuseppe Lorizio, edito su ROMA SETTE DOMENICA 1 OTTOBRE 2023
Come posso avere un Dio misericordioso?» è la questione di fondo che Papa Benedetto XVI attribuiva a Martin Lutero. L’esperienza della misericordia nel contesto cattolico si vive nel sacramento della riconciliazione. Di qui la domanda: se così è perché invocare il dono dell’indulgenza? Non si rischia così di sminuire l’efficacia del sacramento? La costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina, promulgata nel 1967 da Paolo VI ci aiuta a rispondere a questa fondamentale domanda introducendo la distinzione fra peccato (= colpa) e pena: «È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene infinite dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici. Perciò i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze e danni. Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà» (n. 2). Se dunque nel sacramento sperimentiamo la misericordia di Dio in rapporto ai peccati commessi, la prassi delle indulgenze radicalizza il perdono applicandolo anche alle pene che il peccato richiede, perché sia fatta giustizia. E tutto ciò sempre nell’orizzonte della grazia. L’esperienza del cristiano sarà dunque quella di un Dio misericordioso che è anche indulgente. Di qui alcune importanti conseguenze. In primo luogo, il dono dell’indulgenza si radica nel sacramento, senza il quale sarebbe privo di senso. In secondo luogo, i gesti richiesti perché tale dono possa essere ricevuto non costituiscono dei meriti che costringerebbero Dio a rimettere le pene che invece abbiamo meritato con le nostre colpe, piuttosto ci fanno comprendere che la gratuità della grazia è “a caro prezzo” e non la si può pretendere né ricevere superficialmente. Infine, l’aspetto che maggiormente mi intriga di questo assunto della dottrina consiste nella “comunione dei santi” che essa esprime. E questo non solo perché, come abbiamo visto, l’esperienza del Dio indulgente si vive nella comunità, ma anche e forse soprattutto perché possiamo invocare la remissione delle pene anche per i fratelli che ci hanno preceduto nel regno dei cieli. E possiamo inoltre, ma non secondariamente, attingere al dono attraverso l’intercessione di Maria e dei santi: «Appartiene inoltre a questo tesoro [della Chiesa] il valore veramente immenso, incommensurabile e sempre nuovo che presso Dio hanno le preghiere e le buone opere della beata vergine Maria e di tutti i santi, i quali, seguendo le orme di Cristo signore per grazia sua, hanno santificato la loro vita e condotto a compimento la missione affidata loro dal Padre; in tal modo, realizzando la loro salvezza, hanno anche cooperato alla salvezza dei propri fratelli nell’unità del Corpo mistico» (Indulgentiarum doctrina, n. 5). Poter sperimentare l’indulgenza di Dio fa sì che ciascuno possa vivere il Giubileo, come profondo momento di conversione personale e comunitaria e che quindi ritorni al proprio quotidiano rinnovato nello spirito con la consapevolezza di aver avuto accesso al volto del Dio misericordioso e indulgente.
Articolo di Giuseppe Lorizio su Avvenire.it Mentre accompagna con la preghiera il feretro del filosofo che si accinge a varcare la soglia della chiesa di San Lorenzo in piazza Castello a Torino, per la celebrazione delle esequie secondo il rito della chiesa cattolica, il teologo credente è chiamato ad abbassare la guardia dell’ortodossia dottrinale per interrogarsi sulle intersezioni, che nel caso di Gianni Vattimo possiamo ben denominare “incroci”, fra la figura del pensatore e la propria fede cristiana. Si tratta da un lato di staccare le etichette, che di volta in volta sono state cucite sulla sua persona e sul suo pensiero, in particolare quella del “relativismo” e del “nichilismo” (in senso banale), ed esercitare una riflessione che sostenga e accompagni la pur inevitabile emozione suscitata da questa perdita. E ciò, si spera, a vantaggio di quanti si stanno interrogando sul significato di questo pensiero nel panorama contemporaneo e in rapporto al Cristianesimo. E non sarà arduo rilevare come si tratti di incroci non casuali, né occasionali, ma profondamente innestati sulla biografia e sulla riflessione che i suoi numerosi scritti ci consegnano.
Il primo di questi “incroci” è appunto quello biografico. I commenti che in questi giorni si sono espressi nei media hanno quasi sempre sottolineato l’innesto del giovane Vattimo nell’Azione Cattolica e la sua militanza generosa nelle fila di questa istituzione….
Di Giuseppe Lorizio apparso su Roma7, 17 settembre 2023
L’esperienza del Giubileo va pensata e vissuta come una risposta alla domanda di Lutero e di ciascuno di noi: «Come posso avere un Dio misericordioso?» che, riflettendo sulle indulgenze, possiamo riferire al Dio “indulgente”. Ci accompagna la consapevolezza che, nel nostro contesto culturale così come si esprime nel linguaggio comune, l’indulgenza è sintomo di debolezza. Un giudice, un docente, un’autorità… indulgenti vengono interpretate come figure scialbe, poco decisioniste e fondamentalmente ingiuste. Eppure, il Dio di Gesù di Nazaret si presenta col volto dell’indulgenza, che risplende ad esempio nell’episodio dell’adultera, narrato nel cap. VIII del IV vangelo. Gesù contrasta il fondamentalismo intransigente di chi si appresta a lapidare la donna rea e le offre un’altra possibilità. Ma questo è solo un esempio dell’indulgenza del Dio dei cristiani. Pensiamo allora il dono gratuito dell’indulgenza che riceveremo nel Giubileo come il rendersi presente della misericordia divina nella nostra esistenza. È la debolezza del Dio neotestamentario che si oppone a una visione faraonica e onnipotente, in quanto sappiamo da Gesù e dalla Chiesa che questo Dio ha un debole per l’umanità e per ciascuno di noi, tanto da donare il suo Figlio per la nostra salvezza. Con la parola “indulgenza” è connesso il concetto del “merito”. Sappiamo bene che non si tratta dei “nostri meriti”: «Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie. I nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva: Gesù Cristo Signore» e, già nel canone romano: «Ammettici a godere della loro sorte beata [di Maria e dei santi] non per i nostri meriti, ma per la ricchezza del tuo perdono», così preghiamo e così crediamo, nella convinzione che non sono le nostre opere ad ottenerci la grazia che salva, ma la fede teologale, anch’essa dono di Dio. Non si partecipa dunque al cammino giubilare per meritare l’indulgenza. La meritocrazia non è prospettiva del credente peccatore di fronte all’Eterno giudice misericordioso. Il cammino non è un percorso individuale, ma comunitario. La stessa dottrina delle indulgenze si innesta nella prospettiva della sanctorum communio, che è il nome della Chiesa nel simbolo di fede più antico. Tale attitudine comunitaria non riguarda solo la modalità terrena di vivere l’anno giubilare attraverso, ad esempio, il pellegrinaggio della propria comunità di appartenenza, ma va vissuta anche in connessione, non virtuale, ma reale, con la chiesa dei santi che sono nell’altra vita. Si attua così uno scambio di doni fra i santi e i beati, noi e coloro che ci hanno preceduto e che abbiamo amato. In questo senso la comunione dei santi, ossia la Chiesa, non può essere vissuta e interpretata solo in chiave sociologica: il Giubileo ci fa “pensare in grande” questa storica e fragile comunità alla quale siamo lieti di appartenere. Si tratta di attivare quelli che il teologo gesuita Pierre Rousselot chiamava “gli occhi della fede”, che spesso bendiamo nel nostro quotidiano misurarci con le piaghe di una Chiesa chiamata quotidianamente a riformarsi.
Attorno all’enigmatica figura paolina del Κατέχoν si sono susseguite diverse e contrastanti interpretazioni, che hanno coinvolto lungo i secoli la teologia e la filosofia fino ai nostri giorni. Il dato costante è la rilevanza politica di tale figura e la sua attinenza al tema del rapporto tra Vangelo e potere.
Di Giuseppe Lorizio su Dialoghi 3/2023. La lettera seconda ai Tessalonicesi si presenta con un groviglio di enigmi: dalla identificazione dell’autore, alla datazione fino all’ipotesi tutt’altro che peregrina che il testo recepito nel canone provenga dall’assemblaggio di diverse lettere. Quesiti ricchi di fascino, ma ai quali in questa sede possiamo solo accennare, mentre intendiamo tentare un approfondimento dei due versetti sopra riportati, che introducono una delle figure più discusse e controverse di questa seconda lettera…
Incontro del 9 Settembre presso Auditorium del santuario della Madonna del Divino Amore. “IdR nell’era della rivoluzione digitale”. Articolo di Michela Altoviti -relazionano P. Marco Staffolani vicedirettore uff. Cultura (ass. presso PUL), e prof. Fabio Pasqualetti Ordinario di Scienze della Comunicazione sociale (UPS) Continua lettura su Romasette.it 9/9/23