Creativi ed inclusivi per essere accanto ai poveri.

Di Marco Staffolani su Avvenire Roma 7, 17 Novembre 2024.

«Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio…» Lc 6,17.20-26

Queste frasi del Vangelo mi hanno sempre messo in difficoltà perché ogni volta che si presentano nella liturgia, sulla bocca di qualche amico, con la presenza di qualcuno povero per davvero, suscitano domande e chiedono risposte concrete, da dare nella vita personale e nel contesto socioculturale che si abita.

L’orizzonte di comprensione delle affermazioni lucane non può che essere paradossale, cioè non si trova nel quieto vivere con le sue regole e comprensioni del mondo, ma nella prospettiva di una “chiesa in uscita”, anche da sé stessa, che si mette in cammino verso l’orizzonte ampio di Dio, che lascia sempre spazio alla libertà dell’uomo.

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Che significa allora andando “verso il Giubileo”, in data 17 Novembre 2024, in cui si celebra l’VIII giornata mondiale per i poveri, questa presenza di coloro che Gesù proclama beati, e che papa Francesco ci ricorda al n. 16 della Spes non confundit?

Nella nostra società del benessere (e delle disuguaglianze) una condizione di povertà, di mancanza, non è di per sé desiderabile, ad esempio nell’interpretazione classica di chi non ha il pane quotidiano, un luogo dove dormire, di disporre di denaro. Il “peccato” sta nel pensare tali povertà come il problema di qualcuno, o come categorie che possono (o peggio devono) essere isolate.

Il vangelo ci sfida a superare ogni divisione umana, e comprendere che la reale condizione dell’uomo è intrinsecamente povera, e questo è voluto da Dio che ci fa esistere come creature, da lui dipendenti. Ognuno di noi, oltre che del pane, ha bisogno di Lui come senso profondo dell’esistenza, e ancor di più per salvarsi dalla chiusura in sé, nei propri egoismi.

Per converso, la vera ricchezza da raggiungere è oltre lo spazio e il tempo, anche se è già possibile attingerne misteriosamente nell’hic et nunc: il regno di Dio, quello in cui dimora la giustizia, è già in mezzo a noi, magari se non lo si vede è proprio nei poveri come germoglio che aspetta per moltiplicarsi.

Ecco allora la scoperta a cui ci porta il Vangelo: la povertà è una condizione che viviamo tutti, è il nostro essere lontani da Dio, che non sappiamo nemmeno misurare, ma che non ci lascia disperati in quanto tale nostra povertà è stata assunta anche dal Figlio, Gesù Cristo.

Proviamo allora a trarne giovamento piuttosto che viverne il lamento. Sappiamo vedere il rimando al “mezzo gaudio” che ci accomuna tutti? La povertà evangelica non crea distinzioni piuttosto invita alla conversione personale e comunitaria, verso Colui che si è identificato nei poveri, e che giudicherà alla fine dei tempi in merito a quanto è stato fatto loro, come se fosse stato fatto a Lui (mt 25,31-46).

In questo quadro della “buona novella” si comprende perché agire a favore di “chi ha di meno”, senza ridurre la povertà ad un problema di etica astratta o di “perbenismo sociale”, pacificando la coscienza con azioni isolate, mosse da circostanze emotive. Papa Francesco ci ricorda di «dare vita a processi di sviluppo in cui si valorizzano le capacità di tutti, perché la complementarità delle competenze e la diversità dei ruoli porti a una risorsa comune di partecipazione» (Messaggio per la V giornata mondiale dei poveri 14 novembre 2021, n.6). Che lo Spirito Santo ci faccia essere creativi e inclusivi, per non escludere nessuno, in quanto nessuno è così povero da non poter dare assolutamente nulla agli altri.

Il volto paterno di Dio, la tenerezza e la volontà

Rubrica verso il Giubileo, prof. Giuseppe Lorizio, su Romasette 28 Aprile 2024.

Ma è difficile trovare il fattore e padre di quest’universo, e, trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti», così Platone nel Timeo. L’intuizione della paternità divina rispetto al cosmo e all’uomo era già presente nell’antichità greca, come mostrano i riferimenti di Paolo ai testi stoici: «Salve, Padre, grande meraviglia, grande soccorso degli uomini, tu e la tua prima discendenza» (Arato, Fenomeni, 1-16). Anche Israele percepisce la paternità divina rispetto al suo essere popolo di Dio. La differenza rispetto alla fede cristiana che professiamo nel Simbolo, consiste nel particolare rapporto che lega Gesù di Nazaret al Padre celeste.

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Le radici del monoteismo e la metafora sponsale

Di Giuseppe Lorizio su Roma Sette (Avvenire 7 Aprile) Il monoteismo di noi cristiani affonda le proprie radici nell’esperienza di Israele, che giunge alla fede in un solo e unico Dio in contrapposizione al paganesimo del contesto culturale e religioso dei popoli vicini. Si tratta di un rapporto unico col proprio Dio, che lo ha liberato dalla schiavitù d’Egitto e viene successivamente pensato come il creatore del cielo e della terra. Possiamo quindi affermare che l’esperienza fondativa dell’esodo precede la fede nella creazione e la determina. Ed è quanto accade anche a noi, chiamati a sperimentare la misericordia di Dio nel Giubileo che ci attende.

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I doni della fede, le omelie di Tommaso d’Aquino

Nella quaresima del 1273, Tommaso d’Aquino si trovava a Napoli, dove tenne una predicazione in San Domenico Maggiore, commentando la professione di fede e altri elementi fondamentali quali il “Padre nostro”. Le omelie venivano pronunziate, secondo quanto affermato da uno dei suoi biografi Guglielmo da Tocco, in dialetto napoletano, lingua che l’Aquinate avrebbe appreso da sua madre di origini partenopee.

Il maestro di sacra dottrina, proveniente da Parigi, iniziava la sua pedicazione invitando a riflettere sui doni del credere, che raggiungono tutti noi. Il primo di essi è il matrimonio dell’anima con Dio, secondo la metafora sponsale che la Scrittura ci offre soprattutto nel profeta Osea. Infatti, nella fede, l’umanità diventa con-sorte della divinità. E tale rapporto coniugale è indissolubile, come il matrimonio sacramentale fra uomo e donna. Ed è proprio in questa prospettiva che la Chiesa, fedele alla Parola di Dio scritta e alla Tradizione, ritiene il matrimonio sacramento, ossia segno dell’unione fra le alterità rappresentate dal maschile e dal femminile e non potrà mai ritenere sacramentali i rapporti omogenei fra uomini o fra donne. E questa scelta fondamentale, se letta al riparo dai pregiudizi ideologici, non può certamente offendere nessuno, tanto meno i fratelli e le sorelle omosex.

Il secondo dono che la fede ci porge è la vita eterna, per cui tale condizione non è solo quella che ci attende dopo la morte, bensì in fase iniziale ed incipiente è già vissuta dal cristiano. In questo senso i momenti del vissuto che stiamo abitando sono già eterni e quindi paradisiaci o infernali, nella misura in cui siamo in armonia con Dio, noi stessi, gli altri e il mondo o, al contrario, viviamo lacerazioni profonde che ci gettano nell’angoscia esistenziale, che rende insopportabili le nostre giornate. Eterna è l’altra vita, quella dopo la morte, ma anche quella attuale che sperimentiamo nello spazio-tempo che ci è donato.

Infine, la fede orienta la nostra esistenza, per cui Tommaso ci dice che una vecchietta magari ignorante che crede e vive secondo Cristo, ne sa più di tutti i filosofi prima di Lui. Evidentemente il dotto predicatore aveva davanti agli occhi le vecchiette che in prima fila erano venute ad ascoltarlo e leggeva nei loro guardi una fede semplice tale da disarmare ogni teologia e ogni filosofia. In questa prospettiva la possibilità di vincere il male è data soltanto dalla grazia che viene a sostenere la nostra fragilità e di cui la fede e foriera.

Il dottore angelico non manca inoltre di rilevare il fatto che per quanto un filosofo si sforzi di penetrare l’essenza delle cose, non potrà mai giungere a comprendere neppure la natura di una mosca. C’è dunque sempre una soglia invalicabile che pone un limite alla nostra ragione e al nostro sapere, in quanto la pretesa di conoscere il tutto, ovvero l’essenza delle cose, conduce al totalitarismo come insegnano le vicende della modernità compiuta e degli assolutismi che hanno prodotto soltanto violenze e discriminazioni.

Da Nicea il nucleo della professione di fede

Di Giuseppe Lorizio, 11 Febbraio 2024 su Romasette. Il pellegrino che giunge alla Porta santa per invocare la misericordia del Signore sui propri peccati e su quelli di sorelle e fratelli nella fede, è chiamato a professare il proprio credere attraverso la recita del Simbolo. Per una felice coincidenza il Giubileo che ci attende si celebra a millesettecento anni dal Concilio di Nicea, al quale dobbiamo il nucleo della professione di fede che la Chiesa fa propria nelle celebrazioni eucaristiche festive. Si tratta della cosiddetta “forma lunga” del Credo, per distinguerla da quella breve del Simbolo apostolico. La formula che pronunciamo ogni domenica integra il nucleo dottrinale del Concilio niceno con quello costantinopolitano. Per questo denominiamo il testo “simbolo niceno-costantinopolitano”. L’integrazione dell’altro Sinodo fu necessaria in quanto si trattava di riflettere anche sull’identità della terza persona della Trinità Santissima, ossia lo Spirito Santo.

A Nicea i 318 padri conciliari, convocati dall’imperatore Costantino I, furono chiamati a discutere e convergere sulla questione dell’identità di Gesù, in quanto Figlio del Padre, a fronte dell’eresia di Ario, che riteneva di poter affermare, sulla base di alcuni testi del Nuovo Testamento, una certa inferiorità del Cristo rispetto a Dio Padre. Benché le tesi ariane fossero state già condannate due anni prima, la questione non sembrava del tutto risolta, tanto che a Nicea la formula di fede non fu approvata all’unanimità dal consesso dei vescovi. Cosa apprendiamo dalla lezione di questo decisivo momento storico, che riguarda i cristiani di tutte le confessioni, quindi non solo noi cattolici? In primo luogo, di quanto importante sia per i credenti di tutti i tempi e di ogni latitudine la questione dell’identità di Gesù e quindi della sua divinità. E tale verità chiede sempre di essere riaffermata e riproposta, in quanto l’eresia ariana è sempre in agguato e spesso riemerge nelle convinzioni di persone che si dicono religiose, ma che fanno fatica ad affermare che Gesù di Nazaret è Dio, della stessa natura o sostanza o essenza del Padre. Provvidenziale quindi che in occasioni importanti della vita ecclesiale siamo chiamati a ripetere, non in maniera mnemonica e automatica, la formula di Nicea.

In secondo luogo, il linguaggio e le categorie che ritroviamo nel simbolo, che il contesto culturale odierno può ritenere di difficile comprensione, rivelano la necessità per la fede di esprimersi anche attraverso e nell’incontro con la filosofia greca, in particolare adottando termini come sostanza e persona, che sono entrati nel lessico credente, consentendone una più profonda comprensione, diremmo “metafisica” e una più efficace diffusione nell’orizzonte ellenistico nel quale il Vangelo compie i primi passi, nel tentativo di raggiungere tutte e tutti. L’occasione del Giubileo offrirà la possibilità di esprimere profonda riconoscenza verso la storia e la tradizione che ci ha consegnato un tesoro come il simbolo, che siamo chiamati ad adottare come identificativo della nostra appartenenza a Cristo e alla Chiesa.

Epoca del disorientamento, la bussola della rivelazione

La domanda che ci ha guidato nell’Epifania si può così formulare: come possiamo orientarci nel tempo del disorientamento e della notte del mondo? Chi o cosa guida il pellegrino nel viaggio verso la porta santa? La parola anzi la voce può compiere il miracolo dell’orientamento, per cui non ci perdiamo e non periamo. Si tratta di una voce che si ascolta, ma anche che, in quanto destinata ad orientare, addirittura si vede: «Il popolo vide la voce» (Es 20,18) e il narrante si volta per “vedere la voce” (Ap 1,12). «L’espressione – scriveva l’alessandrino Filone – è altamente significativa. La voce umana è fatta per essere ascoltata, ma la voce di Dio è verità che dev’essere vista. Per quale motivo? Perché ciò che Dio pronuncia non sono parole, ma opera, che l’occhio discerne meglio dell’orecchio».  Il tentativo, rischioso e affascinante di far dialogare Atene e Gerusalemme, la cultura dell’ascolto e della parola con quella della visione e del concetto, conserva ancora una sua validità, a causa della perenne ansia che abita chi lo ripropone, senza rassegnarsi di fronte al dilemma di inquietanti e fallaci alternative. Il nostro tempo è il tempo della povertà, ed è diventato tanto povero da non avvertire la mancanza di Dio come mancanza: «La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero» (così Martin Heidegger).  Nella postmodernità si realizza e si esprime in termini eclatanti quel fenomeno della “perdita del centro”, che Hans Sedlmayr aveva così efficacemente descritto, assumendo come sintomo dell’epoca il messaggio proveniente dalle arti figurative degli ultimi due secoli e che Oswald Spengler aveva, con espressione felice e coraggiosa, denominato “tramonto dell’Occidente”. L’epoca del disorientamento registra come propria componente non marginale e non meramente epistemologica la frammentazione del senso e del sapere che in esso si produce. Come scrive la Fides et ratio: «E’ da osservare che uno dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale consiste nella “crisi del senso”. I punti di vista, spesso di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si sono talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all’affermarsi del fenomeno della frammentarietà del sapere» (n. 81).  In questo contesto di “disperazione epistemologica” e di “dispersione antropologica”, un messaggio particolarmente illuminante le tenebre della notte del mondo è quello che promana dall’espressione che Franz Rosenzweig ha adottato come leitmotiv della propria riflessione e Giovanni Paolo II ha incastonato nella Fides et ratio (n. 15): «Si tratta del mio punto di Archimede in filosofia, che cercavo da lungo tempo […]. Rivelazione è orientamento. Dopo la rivelazione nella natura c’è un “alto” e un “basso”, reale, non più relativizzabile: “cielo” e “terra” […] e nel tempo c’è un “prima” e un “dopo”, reale, stabile. Quindi nello spazio naturale e nel tempo naturale il centro è sempre il punto in cui io in quel momento sono; nello spaziotempo-mondo rivelato il centro è invece un punto fisso inamovibilmente, un punto che non sposto se io stesso mi trasformo o mi allontano: la terra è il centro del mondo e la storia universale si estende prima e dopo Cristo». Detto anzi scritto da un pensatore ebreo non è poco!

L’arameo errante e il nomadismo della fede

Di Giuseppe Lorizio su RomaSette 10 Dicembre 2023.

’a rammî ’obed ’abî »… «Mio padre era un arameo errante…” (Deuteronomio 26,5). La formula di fede o “credo storico” del pio israelita, da pronunciarsi unitamente all’offerta delle primizie, ci consegna un prezioso aggancio per continuare a pensare il cammino dei pellegrini in occasione del Giubileo. Il testo non intende interpellare e coinvolgere solo i credenti, ma stimolare e provocare il pensiero stesso e il suo formularsi filosofico nell’orizzonte della modernità compiuta o della post-modernità. In questo senso si può rievocare un interessante elemento della pittura di Marc Chagall, laddove, in diverse sue opere è presente la figura dell’ebreo che erra, inscrivendosi in diversi degli scenari che il pittore rappresenta.

Anche se l’esegesi più recente tende a minimizzare la dimensione cultuale-simbolica del testo, ritenendo di rinvenire in esso una pura e semplice dichiarazione di identità, la lettura “teologica” che proponiamo sulla scorta dell’esegesi precedente ci sembra plausibile e particolarmente significativa ai fini della nostra tematica. L’opposizione tra la figura del nomade e quella del pellegrino che certa letteratura accoglie e propaganda, manca di fondamento biblico-teologico, in quanto il pellegrinaggio cristiano risulta fondato sul nomadismo originario della fede ed è ulteriore rispetto ad esso.

La formula biblica non ci offre un contenuto dottrinale cristallizzato in un sistema concettuale, ma ci racconta una storia, invitandoci a farne memoria. Si tratta di non dimenticare, ossia di non consegnare all’oblio, nel momento della vita sedentaria e mentre si raccolgono e si consumano i frutti della terra promessa, l’essere stati nomadi e pellegrini. La figura dell’arameo errante viene anche plasticamente, simbolicamente e liturgicamente espressa nel suggestivo rituale connesso alla festa delle capanne (sukkot). Ma chi è l’arameo e quale il senso del suo errare?

L’esegesi ci suggerisce un duplice significato connesso al termine arameo (che in ebraico forma una felice assonanza con “mio padre”). Nel suo significato geografico ed etnico si alluderebbe ai contatti di Giacobbe-Israele, attraverso la propria madre e a causa del suo viaggio, con la Mesopotamia (Aram Naharaim), nel suo più profondo senso morale e culturale l’allusione andrebbe verso una caratteristica certamente poco apprezzata degli aramei, popolo nomade e senza patria e per questo anche considerati razziatori e ladri (in Geremia 3,2 è usato nello stesso significato il termine arabo).

La memoria della situazione nomadica che la professione di fede esige ha così una duplice valenza: in primo luogo quella di non attribuire alla propria iniziativa il bene che si sperimenta mentre si colgono i frutti della sedentarizzazione, in secondo luogo l’invito a non coprire di disprezzo colui che vive ancora la situazione dell’erranza, ossia il nomade. Se poi volessimo attribuire un nome proprio all’arameo errante dovremmo ovviamente identificarlo in prima
istanza e immediatamente (visto il prosieguo del racconto) con Israele-Giacobbe e, con riferimento più ampio, a colui che ebrei, islamici e cristiani, unanimemente considerano il padre della fede: Abramo, che abitava Canaan “come straniero” (Genesi 17,8).

Maria «porta del cielo» per la nostra redenzione

Di Giuseppe Lorizio, su RomaSette 26 Novembre 2023

Nelle litanie lauretane che la pietà popolare dedica alla Vergine Madre, ripetendole come un mantra, perché le invocazioni possano penetrare nel cuore e nella mente di quanti le esprimono, rinveniamo un riferimento, che
potremmo chiamare “giubilare”, alla “porta”, allorché
denominiamo Maria “ianua coeli” (“porta del cielo”).
Il nesso con la “porta santa” viene spontaneo, ma forse dovremmo cercare di pensare la formula nel suo significato più profondo, in modo da ripeterla con maggiore consapevolezza. Nel Nuovo Testamento Gesù indica se stesso come la “porta”: «In quel tempo, Gesù disse: “In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E
quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e
distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”» (Gv 10, 1-10).

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Il Giubileo ci chiama a riconciliarci con la vita

Rubrica Verso il Giubileo. Prof. Giuseppe Lorizio su Roma Sette 12 Novembre 2023.

ll viandante dello spirito è chiamato ad intraprendere un cammino, in compagnia del genio ebraico di Franz Rosenzweig, così come disegnato nel suo capolavoro, che definire un “libro magico” è indicarlo come imprescindibile per la nostra (ebrei e cristiani) cultura, La stella della redenzione. Giunto a destinazione il nostro pellegrino si trova dinanzi a una “porta” che si sta schiudendo e, voltandosi indietro, si accorge di aver effettuato un percorso che dalla morte, con l’angoscia che questa fondamentale umana esperienza induce, attraverso la rivelazione dell’amore (“forte come la morte”) giunge alla vita. E la porta non si sta aprendo per farlo entrare in un tempio o santuario, bensì per condurlo ad uscirne, dopo l’esperienza di conversione che ha vissuto a contatto con la divina misericordia. Una porta in entrata il genio filosofico dell’Occidente l’aveva già indicata attraverso la scritta posta sull’architrave del tempio di Delfi. Il monito «Conosci te stesso!» era lì «a testimonianza di una verità basilare che deve essere assunta come regola minima da ogni uomo desideroso di distinguersi, in mezzo a tutto il creato, qualificandosi come “uomo” appunto in quanto “conoscitore di se stesso”. Un semplice sguardo alla storia antica, d’altronde, mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello stesso tempo le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza umana: «chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita?”

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