Purgatorio, l’importanza della preghiera per i defunti

Verso il Giubileo, di Giuseppe Lorizio, edito su ROMA SETTE  DOMENICA 29 OTTOBRE 2023

Il fatto che nella nostra esistenza storica viviamo la compresenza di luci e ombre, di bene e male, di peccato e grazia, viene dalla fede cattolica, nella dottrina del Purgatorio, pensato e ritenuto come condizione anche dell’altra vita, fino al giudizio universale. Così come siamo ora, saremo allora e il lavoro su noi stessi, che dobbiamo compiere nell’oggi, può continuare nel domani per renderci tutti, ma proprio tutti, redenti e felici. In questa prospettiva la sofferenza, la solitudine e il dolore non costituiscono per noi un fine. Non è vero che siamo nati per soffrire, ma la sofferenza ci è data perché possiamo recuperare quella libertà che il peccato ci toglie. E dal Purgatorio si può solo andare in Paradiso, quindi si tratta di un luogo di speranza, tanto che la nostra tradizione ci invita a pregare per le anime “sante” del purgatorio. Essere cattolici significa questo: essere profondamente umani.
Nel prossimo Giubileo siamo chiamati ad essere “pellegrini di speranza” e possiamo vivere questo impegno, che non può né deve essere ridotto ad uno slogan, nell’esperienza della misericordia, che ci è donata con l’indulgenza. Ma questo percorso non riguarda solo noi, può riguardare anche i nostri fratelli defunti, per i quali siamo chiamati a pregare. Se la loro condizione di redenzione o di dannazione fosse già stabilita, non avrebbe alcun senso pregare per loro, se non quello del farne memoria. La fede cattolica va più in profondità: non solo li ricordiamo, ma condividiamo con loro la misericordia che sperimentiamo, nella “comunione dei santi”, che costituisce e denomina la Chiesa.
E non è corretto sostenere che la nostra fede nella purificazione oltre la morte non abbia alcun fondamento né riscontro nella Parola di Dio. Il Catechismo della Chiesa cattolica è molto chiaro a questo riguardo e ci rimanda proprio alle Scritture Sante, che suggeriscono e attestano anche questo aspetto del nostro credere. «La Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti».
La preghiera per i defunti è attestata nella Bibbia, ma è vissuta nella comunità praticamente da sempre. «Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: “Perciò [Giuda Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato” (2 Mac 12,45). Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio. La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti: «Rechiamo loro soccorso e commemoriamoli. Se i figli di Giobbe sono stati purificati dal sacrificio del loro padre, perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro qualche consolazione? […] Non esitiamo a soccorrere coloro che sono morti e ad offrire per loro le nostre preghiere» (CCC1032, la citazione è tratta dall’omelia sulla I lettera ai Corinzi di San Giovanni Crisostomo).
Ma anche questo aspetto non marginale della nostra fede, chiede di essere vissuto non con atteggiamento magico, ma nella prospettiva della grazia e della condivisione dei beni spirituali che essa ci porge e che durante il Giubileo vivremo in maniera particolarmente intensa.

Purgatorio, comprensione fuori dalla logica binaria

Verso il Giubileo, di Giuseppe Lorizio, edito su ROMA SETTE  DOMENICA 15 OTTOBRE 2023

Il Giubileo offre un’occasione preziosa di preghiera per «coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede e ora dormono il sonno della pace». Il dono dell’indulgenza, di cui ci siamo occupati nei precedenti contributi (3, 17 settembre e 1° ottobre) può essere destinato, oltre che a noi stessi, anche ai nostri cari defunti, come in- segna la dottrina cattolica. E ciò è possibile nell’orizzonte della dottrina cattolica del “purgatorio”, tema, come quello delle indulgenze, tipicamente confessionale, al quale la religiosità popolare è particolarmente affezionata, nel momento in cui rivolge il proprio pensiero e la propria orazione a quelle che chiamiamo le “anime sante del Purgatorio”. Ma di cosa si tratta in realtà? Nel 2020, in occasione della tragica morte di Kobe Bryant, un quotidiano nostrano pone una domanda che non può lasciare indifferente il teologo: «Perché su Twitter non c’è il Purgatorio?». «Perché sui social e quindi nelle nostre menti, è scomparso il Purgatorio? Se ne può par- lare oppure quando uno muore deve finire per forza in Paradiso fra i santi o all’Inferno fra i dannati? Perché non accettiamo il fatto che la vita delle persone è complessa, sfaccettata, contraddittoria a volte, e anche gli eroi possono avere una macchia?» Come noto, la dottrina del Purgatorio appartiene alla cosiddetta “escatologia intermedia”, ossia a ciò che accade dopo la morte alla persona, in attesa del giudizio universale, ovvero dell’“escatologia finale”. Si tratta di un dato di fede proprio della tradizione cattolica, laddove le altre forme di cristianesimo (protestante e ortodossa) non lo contemplano. La letteratura storiografica riconduce tale espressione di fede all’universo medievale, ma, come ci ha insegnato la grande scuola francese degli Annales, non tutto ciò che la cristianità del Medioevo ha prodotto ed espresso è da classificare come oscurantista e da rigettare in quanto tale. E neppure può essere ritenuto arbitrario. La risposta alla domanda teologica, che emerge da questa secolarizzazione dell’aldilà, mi sembra possa e debba declinarsi nei seguenti termini. Inferno e Paradiso rispondono ad una logica binaria, che è quella delle macchine e della cosiddetta intelligenza artificiale, per cui esiste solo il bene o il male, il vero o il falso, il bello o il brut- to. Ma non si tratta di una logica “umana”. Nell’umano ci sono diversi toni di grigio, tutto si mescola, tanto che diventa difficile discriminare e discernere. Discernimento che richiede fatica, competenza, dedizione. La forma cattolica della fede cristiana, in quanto “via me- dia”, assume questa visione dell’uomo e offre a chiunque una seconda possibilità. Ci chiede di purgare noi stessi dalle scorie del male, per poter attingere al vero bene. For- se non abbiamo più gli strumenti per comprendere questa logica paradossale, che si radica su una precisa antropologia. Miseria e nobiltà sono infatti dimensioni dell’umano, descritto da Blaise Pascal come una “canna pensante”, nella sua fragilità, ma anche nella sua enorme potenzialità, che risiede nell’intelligenza e nella libertà, che le sono donate. Lutero dichiarava che l’uomo, an- che redento, è allo stesso tempo peccatore e giusto (“simul iustus et peccator”), papa Francesco ci ricorda che «siamo tutti peccatori», anzi che Dio ci cerca proprio mentre siamo nel peccato, per donarci la sua misericordia. E i santi hanno avuto ed espresso sempre piena coscienza del loro essere peccatori. (1 – continua)

Il dono dell’indulgenza si radica nel sacramento

Verso il Giubileo, di Giuseppe Lorizio, edito su ROMA SETTE  DOMENICA 1 OTTOBRE 2023

Come posso avere un Dio misericordioso?» è la questione di fondo che Papa Benedetto XVI attribuiva a Martin Lutero. L’esperienza della misericordia nel contesto cattolico si vive nel sacramento della riconciliazione. Di qui la domanda: se così è perché invocare il dono dell’indulgenza? Non si rischia così di sminuire l’efficacia del sacramento? La costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina, promulgata nel 1967 da Paolo VI ci aiuta a rispondere a questa fondamentale domanda introducendo la distinzione fra peccato (= colpa) e pena: «È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene infinite dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici. Perciò i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze e danni. Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà» (n. 2). Se dunque nel sacramento sperimentiamo la misericordia di Dio in rapporto ai peccati commessi, la prassi delle indulgenze radicalizza il perdono applicandolo anche alle pene che il peccato richiede, perché sia fatta giustizia. E tutto ciò sempre nell’orizzonte della grazia. L’esperienza del cristiano sarà dunque quella di un Dio misericordioso che è anche indulgente. Di qui alcune importanti conseguenze. In primo luogo, il dono dell’indulgenza si radica nel sacramento, senza il quale sarebbe privo di senso. In secondo luogo, i gesti richiesti perché tale dono possa essere ricevuto non costituiscono dei meriti che costringerebbero Dio a rimettere le pene che invece abbiamo meritato con le nostre colpe, piuttosto ci fanno comprendere che la gratuità della grazia è “a caro prezzo” e non la si può pretendere né ricevere superficialmente. Infine, l’aspetto che maggiormente mi intriga di questo assunto della dottrina consiste nella “comunione dei santi” che essa esprime. E questo non solo perché, come abbiamo visto, l’esperienza del Dio indulgente si vive nella comunità, ma anche e forse soprattutto perché possiamo invocare la remissione delle pene anche per i fratelli che ci hanno preceduto nel regno dei cieli. E possiamo inoltre, ma non secondariamente, attingere al dono attraverso l’intercessione di Maria e dei santi: «Appartiene inoltre a questo tesoro [della Chiesa] il valore veramente immenso, incommensurabile e sempre nuovo che presso Dio hanno le preghiere e le buone opere della beata vergine Maria e di tutti i santi, i quali, seguendo le orme di Cristo signore per grazia sua, hanno santificato la loro vita e condotto a compimento la missione affidata loro dal Padre; in tal modo, realizzando la loro salvezza, hanno anche cooperato alla salvezza dei propri fratelli nell’unità del Corpo mistico» (Indulgentiarum doctrina, n. 5). Poter sperimentare l’indulgenza di Dio fa sì che ciascuno possa vivere il Giubileo, come profondo momento di conversione personale e comunitaria e che quindi ritorni al proprio quotidiano rinnovato nello spirito con la consapevolezza di aver avuto accesso al volto del Dio misericordioso e indulgente.

Pensare in grande con «gli occhi della fede»

Di Giuseppe Lorizio apparso su Roma7, 17 settembre 2023

L’esperienza del Giubileo va pensata e vissuta come una risposta alla domanda di Lutero e di ciascuno di noi: «Come posso avere un Dio misericordioso?» che, riflettendo sulle indulgenze, possiamo riferire al Dio “indulgente”. Ci accompagna la consapevolezza che, nel nostro contesto culturale così come si esprime nel linguaggio comune, l’indulgenza è sintomo di debolezza. Un giudice, un docente, un’autorità… indulgenti vengono interpretate come figure scialbe, poco decisioniste e fondamentalmente ingiuste. Eppure, il Dio di Gesù di Nazaret si presenta col volto dell’indulgenza, che risplende ad esempio nell’episodio dell’adultera, narrato nel cap. VIII del IV vangelo. Gesù contrasta il fondamentalismo intransigente di chi si appresta a lapidare la donna rea e le offre un’altra possibilità. Ma questo è solo un esempio dell’indulgenza del Dio dei cristiani. Pensiamo allora il dono gratuito dell’indulgenza che riceveremo nel Giubileo come il rendersi presente della misericordia divina nella nostra esistenza. È la debolezza del Dio neotestamentario che si oppone a una visione faraonica e onnipotente, in quanto sappiamo da Gesù e dalla Chiesa che questo Dio ha un debole per l’umanità e per ciascuno di noi, tanto da donare il suo Figlio per la nostra salvezza. Con la parola “indulgenza” è connesso il concetto del “merito”. Sappiamo bene che non si tratta dei “nostri meriti”: «Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie. I nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva: Gesù Cristo Signore» e, già nel canone romano: «Ammettici a godere della loro sorte beata [di Maria e dei santi] non per i nostri meriti, ma per la ricchezza del tuo perdono», così preghiamo e così crediamo, nella convinzione che non sono le nostre opere ad ottenerci la grazia che salva, ma la fede teologale, anch’essa dono di Dio. Non si partecipa dunque al cammino giubilare per meritare l’indulgenza. La meritocrazia non è prospettiva del credente peccatore di fronte all’Eterno giudice misericordioso. Il cammino non è un percorso individuale, ma comunitario. La stessa dottrina delle indulgenze si innesta nella prospettiva della sanctorum communio, che è il nome della Chiesa nel simbolo di fede più antico. Tale attitudine comunitaria non riguarda solo la modalità terrena di vivere l’anno giubilare attraverso, ad esempio, il pellegrinaggio della propria comunità di appartenenza, ma va vissuta anche in connessione, non virtuale, ma reale, con la chiesa dei santi che sono nell’altra vita. Si attua così uno scambio di doni fra i santi e i beati, noi e coloro che ci hanno preceduto e che abbiamo amato. In questo senso la comunione dei santi, ossia la Chiesa, non può essere vissuta e interpretata solo in chiave sociologica: il Giubileo ci fa “pensare in grande” questa storica e fragile comunità alla quale siamo lieti di appartenere. Si tratta di attivare quelli che il teologo gesuita Pierre Rousselot chiamava “gli occhi della fede”, che spesso bendiamo nel nostro quotidiano misurarci con le piaghe di una Chiesa chiamata quotidianamente a riformarsi.

IdR nell’era della rivoluzione digitale

Staffolani… ha messo in luce specialmente le differenze «tra la macchina e l’uomo», individuando che cosa la prima non possiederà mai del secondo. 

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Incontro del 9 Settembre presso Auditorium del santuario della Madonna del Divino Amore. “IdR nell’era della rivoluzione digitale”. Articolo di Michela Altoviti -relazionano P. Marco Staffolani vicedirettore uff. Cultura (ass. presso PUL), e prof. Fabio Pasqualetti Ordinario di Scienze della Comunicazione sociale (UPS) Continua lettura su Romasette.it 9/9/23

Indulgenza, il nostro impegno a purificare il linguaggio.

Verso il Giubileo, di Giuseppe Lorizio su Roma7, 3 settembre 2023

l linguaggio del Giubileo ha bisogno di essere purificato, interpretato e pensato, onde evitare equivoci madornali e visioni erronee tali da mettere in crisi la credibilità della Chiesa. Fra le parole che più si prestano ad essere equivocate emerge senz’altro il termine “indulgenza”, che  ha dato origine al dramma dello scisma protestante, proprio perché uomini di Chiesa lo hanno utilizzato per fini  non propriamente evangelici. Fra di loro la figura più nota è quella del padre domenicano Johann Tetzel, che nel  1516 iniziò una campagna acquisti di indulgenze, che di  fatto commercializzava la misericordia divina e la grazia.  A lui si attribuisce la filastrocca: «quando cade il soldin nella cassetta/l’anima vola al cielo benedetta», citata in parafrasi da Lutero nella XXVII delle sue 95 tesi: «Predicano  l’uomo coloro che dicono “Appena il soldino ha tintinnato nella cassa, un’anima se ne vola via”».   Avrà gioco facile un filosofo rigorosamente ateo quale JeanPaul Sartre, nella sua pièce teatrale oltremodo suggestiva intitolata Il diavolo e il buon Dio e situata proprio nel contesto  del luteranesimo, dove Tetzel si esprime con queste parole:  «Fratelli miei, Dio vi propone questo affare incredibile: il  Paradiso, per due scudi, chi è l’avaro, chi è il sordido, che  non darà due scudi per la sua vita eterna?».  La Chiesa e ciascuno di noi dovrà lasciarsi provocare da queste critiche e intraprendere la via della purificazione di linguaggio e gesti che possano suscitare l’idea che si stia commercializzando la grazia. Un piccolo, ma non marginale  accorgimento, sarebbe quello di evitare e vigilare perché si  eviti di affiancare all’indulgenza il verbo “lucrare”. Ci chiediamo allora: è davvero possibile liberare la grazia dai lacci del mercimonio? Il canto XIX dell’Inferno dantesco contiene già una radicale critica della simonia e Michelangelo  gli farà da eco col X dei suoi sonetti: «Qua si fa elmi di calici e spadee ’l sangue di Cristo si vend’a giumelle,e croce e  spine son lance e rotelle,e pur da Cristo pazïenzia cade».  Una sana e autentica, in quanto espressione del Vangelo,  dottrina delle indulgenze va impostata proprio a partire da  quella che papa Benedetto XVI, nella sua visita a Erfurt (il  convento dove si formò Martin Lutero) indica come la domanda di fondo che angosciava il monaco agostiniano e coinvolge tutti noi: «“Come posso avere un Dio misericordioso?”. Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente nel cuore. Chi, infatti, oggi si preoccupa ancora di questo, anche  tra i cristiani? Che cosa significa la questione su Dio nella  nostra vita? Nel nostro annuncio?» (23 settembre 2011).   Il volto indulgente di Dio, che la Chiesa ci chiama a percepire anche, ma non solo, nel Giubileo è la risposta a questa domanda di fondo. Di qui la necessità di pensare l’indulgenza che riceviamo, ma non acquistiamo o lucriamo,  nella prospettiva del Dio di Gesù Cristo e della sua assoluta e gratuita misericordia. Purificando i nostri gesti e il  nostro linguaggio potremo vivere anche in maniera ecumenica il prossimo Giubileo, secondo il proposito di papa Francesco: «Lo stile e le decisioni del Concilio di Nicea  devono illuminare l’attuale cammino ecumenico e far maturare nuovi passi concreti verso la meta del pieno ristabilimento dell’unità dei cristiani. Dato che il 1700esimo  anniversario del primo Concilio di Nicea coincide con  l’anno giubilare, auspico che la celebrazione del prossimo  Giubileo abbia una rilevante dimensione ecumenica» (discorso all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per  l’Unità dei Cristiani, 6 maggio 2022).