LE RADICI STORICO-CULTURALI DELL’ASSENZA DELLA TEOLOGIA NELLO «SPAZIO PUBBLICO»

di Giuseppe Lorizio Path 22 (2023) 339-363

A fasi alterne fa capolino nel dibattito teologico la tematica dell’as­senza della teologia dall’areopago culturale contemporaneo. Anni addie­tro si parlava di «esilio» del sapere teologico con grande rammarico degli addetti ai lavori e in funzione direttamente proporzionale alla frustrazio­ne accumulata in quanti fra loro avrebbero aspirato a ben altri riconosci­menti (anche di tipo economico), dimenticando che il sapere di cui si oc­cupano è, e tale deve rimanere a modesto parere di chi scrive, «scientia magis speculativa quam practica», secondo l’illuminante lezione dell’Aquinate.[1]

La contemplazione del mistero è, quindi, il fine ultimo del sapere te­ologico, che, in quanto tale, è chiamato anche a vestire i panni dell’in­comunicabilità. Mi ha sempre particolarmente colpito una suggestiva os­servazione di René Guénon, il quale, a fronte di uno sviluppo meramen­te materiale della civiltà moderna, rivendicava (con modalità per molti aspetti non condivisibili) il senso della ricerca intellettuale e spirituale:


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La serietà dell’errare e il dinamismo della fede

In quanto credenti nel Dio del Signore Gesù Cristo, l’esperienza nomadica ci appartiene altrettanto originariamente, poiché all’errare abramitico possiamo facilmente accostare il vagare di Maria e Giuseppe ( Lc 2,7) che depongono il neonato in una mangiatoia «perché non c’era posto [ou topos = nessun posto = utopia] per loro nell’albergo» e il nomadismo del Figlio dell’uomo, che, a differenza delle volpi e degli uccelli, «non ha dove posare il capo» ( Mt 8,20 / Lc 9,58). Per accostare il Natale possiamo anche ricordare come il farsi carne del Verbo e il suo abitare fra noi fa riferimento ad una dimora che di fatto è una tenda (originariamente la “tenda del convegno”), come suggerisce il greco dei LXX, che riprende l’ebraico della shekinah ( Gv 1,14).

La condizione dell’erranza si viene così a manifestare come costitutivamente cristica, in quanto alla domanda di Mc 1,35ss. «La risposta è questa: “Andiamocene altrove“. Egli infatti è per essenza colui che si sposta da un luogo all’altro, che si sottrae: “Oggi, domani e il giorno seguente bisogna che io vada per la mia strada”». Di qui consegue, per il pensare credente a) sul piano cristologico: «Il Cristo […] non si lascia mai racchiudere in formule. Quando la formula, nella sua fredda astrattezza, si richiama alla concretezza della libera pienezza di Cristo, c’è motivo di sperare che la riflessione teologica sia efficace»; b) sul piano teo-logico: «Dio infatti non è un sistema e nessun sistema può rappresentare Dio».

Se ora ci soffermiamo a riflettere sul participio, che la formula di fede attribuisce all’arameo, siamo indotti a pensare il triplice senso del verbo abad, che traduciamo con errare, indicando in primo luogo appunto la condizione nomadica dell’arameo, che non ha una meta prestabilita, né un itinerario ben tracciato, in quanto, allorché, nella esperienza abramitica, viene invitato a lasciare la propria terra, non gli viene contestualmente indicata alcuna destinazione, né promesso alcun ritorno.

Storia biblica, ma anche filosofica, se possiamo far credito a Emmanuel Levinas e alla sua contrapposizione tra Ulisse e Abramo: «Al mito di Ulisse che ritorna a Itaca, noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto di partenza».

La serietà drammatica dell’errare risulta ancor più marcata quando consideriamo gli altri due significati del verbo ebraico abad, che significa anche perdersi o smarrirsi: l’arameo errante è colui che vive nel disorientamento, in una condizione di smarrimento o di “perdizione”. È colui che si è perduto o sta per perdersi. Ma nell’esperienza nomadica perdersi significa anche perire (ecco il terzo significato di abad). L’arameo che erra, sta per perire. E, nel momento in cui non è più consegnato al nomadismo, non deve né può dimenticare il suo essere caduco, mortale, perituro.

La coscienza della caducità impedisce ogni ybris religiosa o filosofica, culturale o morale. In questo senso ha ragione Vladimir Jankélévitch, quando dice che la morte, il pensiero della morte è una sorta di metafisica consumata dall’uso di quanti rifiutano la metafisica. E il pensiero della morte esige la conversione che il Giubileo intende perseguire in ciascuno di noi.

Elogio della porosità. Per una teologia con-testuale

È disponibile in libreria e online la miscellanea “Elogio della porosità. Per un teologia con-testuale” (Sergio Gaburro – Antonio Sabetta edd.). Si tratta della miscellanea di studi in onore del prof. Giuseppe Lorizio e raccoglie il pensiero di colleghi e studenti che si sono cimentati nel descrivere una peculiare caratteristica teologica, la porosità, in contesti classici e innovativi che il teologo pugliese ha inteso abitare: il pensiero rosminiano, le questioni di confine e liminari tra filosofia e teologia, gli ambiti pertinenti la teologia fondamentale, il dialogo ecumenico con la tradizione luterana e ortodossa, ma anche nuove frontiere come l'”intelligenza artificiale”.

Un libro che merita la giusta attenzione e che può rendere più colto ed istruito il tempo natalizio- clicca per la scheda!

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 3 persone e il seguente testo "SERGIO SERGIOGABRR-ANNIOSAETA(ED. GABURRO ANTONIO SABETTA ELOGIO DELLA POROSITÀ. PER UNA TEOLOGIA CON-TESTUALE Miscellanea di studi per il prof. Giuseppe Lorizio Studium Disponibile n-line e in tutte le librerie"

Laterano: kerygma e kairoi di una teologia inquieta

…Quella messa in campo nel convegno [ L’annuncio del Vangelo nel presente della storia, alla pontificia Università Lateranense] è stata una teologia ellittica, articolata attorno a due fuochi, il kerygma, il primo annuncio che rimane come fondamento, e il kairos, che considera ogni tempo/contesto come opportuno, con le sue istanze e provocazioni. Ciò che ne consegue è un pensiero inclusivo, tanto che dobbiamo considerare i bordi dell’ellisse come sfumati…
continua la lettura Di Marco Staffolani su Settimananews.it 14 dicembre 2023

L’arameo errante e il nomadismo della fede

Di Giuseppe Lorizio su RomaSette 10 Dicembre 2023.

’a rammî ’obed ’abî »… «Mio padre era un arameo errante…” (Deuteronomio 26,5). La formula di fede o “credo storico” del pio israelita, da pronunciarsi unitamente all’offerta delle primizie, ci consegna un prezioso aggancio per continuare a pensare il cammino dei pellegrini in occasione del Giubileo. Il testo non intende interpellare e coinvolgere solo i credenti, ma stimolare e provocare il pensiero stesso e il suo formularsi filosofico nell’orizzonte della modernità compiuta o della post-modernità. In questo senso si può rievocare un interessante elemento della pittura di Marc Chagall, laddove, in diverse sue opere è presente la figura dell’ebreo che erra, inscrivendosi in diversi degli scenari che il pittore rappresenta.

Anche se l’esegesi più recente tende a minimizzare la dimensione cultuale-simbolica del testo, ritenendo di rinvenire in esso una pura e semplice dichiarazione di identità, la lettura “teologica” che proponiamo sulla scorta dell’esegesi precedente ci sembra plausibile e particolarmente significativa ai fini della nostra tematica. L’opposizione tra la figura del nomade e quella del pellegrino che certa letteratura accoglie e propaganda, manca di fondamento biblico-teologico, in quanto il pellegrinaggio cristiano risulta fondato sul nomadismo originario della fede ed è ulteriore rispetto ad esso.

La formula biblica non ci offre un contenuto dottrinale cristallizzato in un sistema concettuale, ma ci racconta una storia, invitandoci a farne memoria. Si tratta di non dimenticare, ossia di non consegnare all’oblio, nel momento della vita sedentaria e mentre si raccolgono e si consumano i frutti della terra promessa, l’essere stati nomadi e pellegrini. La figura dell’arameo errante viene anche plasticamente, simbolicamente e liturgicamente espressa nel suggestivo rituale connesso alla festa delle capanne (sukkot). Ma chi è l’arameo e quale il senso del suo errare?

L’esegesi ci suggerisce un duplice significato connesso al termine arameo (che in ebraico forma una felice assonanza con “mio padre”). Nel suo significato geografico ed etnico si alluderebbe ai contatti di Giacobbe-Israele, attraverso la propria madre e a causa del suo viaggio, con la Mesopotamia (Aram Naharaim), nel suo più profondo senso morale e culturale l’allusione andrebbe verso una caratteristica certamente poco apprezzata degli aramei, popolo nomade e senza patria e per questo anche considerati razziatori e ladri (in Geremia 3,2 è usato nello stesso significato il termine arabo).

La memoria della situazione nomadica che la professione di fede esige ha così una duplice valenza: in primo luogo quella di non attribuire alla propria iniziativa il bene che si sperimenta mentre si colgono i frutti della sedentarizzazione, in secondo luogo l’invito a non coprire di disprezzo colui che vive ancora la situazione dell’erranza, ossia il nomade. Se poi volessimo attribuire un nome proprio all’arameo errante dovremmo ovviamente identificarlo in prima
istanza e immediatamente (visto il prosieguo del racconto) con Israele-Giacobbe e, con riferimento più ampio, a colui che ebrei, islamici e cristiani, unanimemente considerano il padre della fede: Abramo, che abitava Canaan “come straniero” (Genesi 17,8).