Elogio dell’incompiuto…

L’inserto. Elogio dell’incompiuto sul nuovo “Gutenberg” in edicola venerdì 22 novembre.
Il limite, spiega il teologo Giuseppe Lorizio, è un’apertura di possibilità: il compimento è sempre e comunque in un altrove, intramondano oppure metastorico. Alessandro Zaccuri mostra come da Virgilio ai Romanzi incompiuti di Jane Austen, ora in uscita nei “Meridiani”, letteratura, musica e arti visive abbiano spesso sperimentato la potenzialità del “non finito”, mentre in architettura – rileva Alessandro Beltrami – l’incompiuto antico e quello della modernità ci appaiono diversi, anche perché gli scheletri che costellano il paesaggio non conoscono la possibilità di essere abitati. Continua la lettura su Avvenire 22 Novembre

Creativi ed inclusivi per essere accanto ai poveri.

Di Marco Staffolani su Avvenire Roma 7, 17 Novembre 2024.

«Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio…» Lc 6,17.20-26

Queste frasi del Vangelo mi hanno sempre messo in difficoltà perché ogni volta che si presentano nella liturgia, sulla bocca di qualche amico, con la presenza di qualcuno povero per davvero, suscitano domande e chiedono risposte concrete, da dare nella vita personale e nel contesto socioculturale che si abita.

L’orizzonte di comprensione delle affermazioni lucane non può che essere paradossale, cioè non si trova nel quieto vivere con le sue regole e comprensioni del mondo, ma nella prospettiva di una “chiesa in uscita”, anche da sé stessa, che si mette in cammino verso l’orizzonte ampio di Dio, che lascia sempre spazio alla libertà dell’uomo.

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Che significa allora andando “verso il Giubileo”, in data 17 Novembre 2024, in cui si celebra l’VIII giornata mondiale per i poveri, questa presenza di coloro che Gesù proclama beati, e che papa Francesco ci ricorda al n. 16 della Spes non confundit?

Nella nostra società del benessere (e delle disuguaglianze) una condizione di povertà, di mancanza, non è di per sé desiderabile, ad esempio nell’interpretazione classica di chi non ha il pane quotidiano, un luogo dove dormire, di disporre di denaro. Il “peccato” sta nel pensare tali povertà come il problema di qualcuno, o come categorie che possono (o peggio devono) essere isolate.

Il vangelo ci sfida a superare ogni divisione umana, e comprendere che la reale condizione dell’uomo è intrinsecamente povera, e questo è voluto da Dio che ci fa esistere come creature, da lui dipendenti. Ognuno di noi, oltre che del pane, ha bisogno di Lui come senso profondo dell’esistenza, e ancor di più per salvarsi dalla chiusura in sé, nei propri egoismi.

Per converso, la vera ricchezza da raggiungere è oltre lo spazio e il tempo, anche se è già possibile attingerne misteriosamente nell’hic et nunc: il regno di Dio, quello in cui dimora la giustizia, è già in mezzo a noi, magari se non lo si vede è proprio nei poveri come germoglio che aspetta per moltiplicarsi.

Ecco allora la scoperta a cui ci porta il Vangelo: la povertà è una condizione che viviamo tutti, è il nostro essere lontani da Dio, che non sappiamo nemmeno misurare, ma che non ci lascia disperati in quanto tale nostra povertà è stata assunta anche dal Figlio, Gesù Cristo.

Proviamo allora a trarne giovamento piuttosto che viverne il lamento. Sappiamo vedere il rimando al “mezzo gaudio” che ci accomuna tutti? La povertà evangelica non crea distinzioni piuttosto invita alla conversione personale e comunitaria, verso Colui che si è identificato nei poveri, e che giudicherà alla fine dei tempi in merito a quanto è stato fatto loro, come se fosse stato fatto a Lui (mt 25,31-46).

In questo quadro della “buona novella” si comprende perché agire a favore di “chi ha di meno”, senza ridurre la povertà ad un problema di etica astratta o di “perbenismo sociale”, pacificando la coscienza con azioni isolate, mosse da circostanze emotive. Papa Francesco ci ricorda di «dare vita a processi di sviluppo in cui si valorizzano le capacità di tutti, perché la complementarità delle competenze e la diversità dei ruoli porti a una risorsa comune di partecipazione» (Messaggio per la V giornata mondiale dei poveri 14 novembre 2021, n.6). Che lo Spirito Santo ci faccia essere creativi e inclusivi, per non escludere nessuno, in quanto nessuno è così povero da non poter dare assolutamente nulla agli altri.

“Dilexit nos”, il Cuore e la totalità dell’amare

di Marco Staffolani su Roma Sette 3 Novembre 2024

Abbiamo sperimentato i primi freddi della stagione romana e sicuramente qualcuno avrà pensato che il tempo passa veloce, non solo nel ricordo e nella preghiera per i nostri morti a cui è dedicato il mese di novembre, ma anche perché il Natale dell’evento giubilare è sempre più vicino. Sul percorso che ci rimane da compiere per arrivare all’apertura dell’Anno di Grazia, nei Primi Vespri (24 dicembre), il Papa ci permette di fare una breve sosta per riflettere sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo, attraverso la sua ultima enciclica Dilexit Nos (Ci ha amati!).

La parola amare viene a sintetizzare l’essenza divina dinamica (in principio era il Verbo… eterno, preesistente, ma sempre in comunione con il Padre) che si mostra in maniera umana (Gesù Cristo…si fece carne). Tale amore si realizza nel tempo particolarmente in quel «cuore aperto [che] ci precede e ci aspetta senza condizioni» (DN2), venerato per secoli con la classica devozione a Gesù.  

Possiamo allora pensare che il pellegrinaggio terreno serve per “evolvere”, per avere un cuore trasformato, quello “nuovo” dell’uomo redento (tipico del linguaggio paolino), capace di legarsi alla verità, capace di porsi le «domande che contano [per sé e per il presente]: chi sono veramente, che cosa cerco, che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni[?]» ma anche per l’alterità e il futuro: «perché e per quale scopo sono in questo mondo, come valuterò la mia esistenza quando arriverà alla fine, che significato vorrei che avesse tutto ciò che vivo, chi voglio essere davanti agli altri, chi sono davanti a Dio[?]» (DN4).

Il cuore di Gesù risponde a queste domande, con un amore umano e divino: proprio sotto queste due prospettive possiamo pensare come siamo stati amati da Lui, e come Lui ci chiami ad amare, attingendo direttamente a Lui: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Occorre, anche a noi, un cuore che sappia amare in modo umano, oserei dire concreto e terreno, che veda le esigenze immediate, materiali e spirituali per riscattare la persona umana con la sua dignità (offuscata dalle conseguenze del peccato); e poi un cuore che sappia amare in modo divino, cioè capace di elevare l’umano dall’ordine naturale a quello soprannaturale (per usare un gergo classico), o meglio, per portare l’umanità oltre la temporalità e la spazialità, perché entri a far parte dell’eternità della comunione divina (prospettiva di metafisica agapica): questo accade per la tenacia e la dolcezza del cuore, che con la potenza della Parola produce il regno annunciato!

Le due visioni, umana e divina, vanno pensate in modo congiunto, senza metterle in antitesi. La prima, terrena, ha ripercussioni sull’hic et nunc, sull’esigenza che sia ripristinata la giustizia tra gli uomini, la pace tra i popoli, e, con la sensibilità a cui ci ha abituato Francesco, anche proteggere e custodire il creato intero; la seconda, divina rifacendosi ai segni tangibili, visibili e buoni della terra, ricorda dove tutto è destinato, al semper di Dio, e che amor vincit omnia. Ci guidi lo Spirito alla comprensione della verità tutta intera, e alla totalità dell’amare.

Marco Staffolani

La teologia irrilevante o latitante?

di: Giuseppe Lorizio su settimanaNews 4 novembre 2024

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È un bel dilemma, ma forse la condizione del teologo si situa in entrambe le prospettive: quella della irrilevanza, soprattutto a causa della diffidenza che si percepisce da parte del contesto ecclesiale nei confronti di chi lavora in campo teologico e quella della latitanza, per il fatto che, forse scoraggiati dal non essere presi in considerazione nella chiesa, che pure sentiamo nostra, evitiamo di esporci proponendo soluzioni che sappiamo in partenza verrebbero osteggiate dai pastori e dalla gente. continua lettura su Settimananews

Oltre la cristianità: la metamorfosi della fede nell’Occidente moderno

Prosegue il dibattito nato in seguito alla prolusione che Luca Diotallevi, docente di Sociologia all’Università di Roma Tre, ha tenuto all’inaugurazione della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna su «La fine del cristianesimo, religione degli italiani», e pubblicata su Avvenire lo scorso 23 ottobre

Di Giuseppe Lorizio su Avvenire 2 Novembre 2024. Che sia finita la cristianità e il cristianesimo nella sua forma cattolica non costituisca, ormai da tempo, l’orizzonte del nostro sentire e vivere la società è perfino scontato. Non abbiamo bisogno di analisi sociologiche per stabilirlo. Piuttosto avremmo necessità di sapere in che cosa credono gli italiani e, direi, gli occidentali europei. Non è una domanda semplice per il fatto che fra credenti e non-credenti qui ed ora si situano quelli che da tempo vado indicando come “diversamente credenti”. E ho sentore che si tratti di una maggioranza silenziosa, ma non irrilevante per il teologo e per la comunità credente.

“Diversamente” è il termine-avverbio decisivo. Da cosa? In primo luogo, direi da un cattolicesimo convenzionale, Continua lettura su avvenire