
di Marco Staffolani, RomaSette 9 Giugno 2024
Nel credo niceno costantinopolitano l’articolo di fede dedicato a Gesù Cristo è molto corposo. Constatiamo in esso un doppio movimento, previsto nel progetto di Dio a favore dell’umanità, che dice anche la comunione di volontà tra il Padre e il Figlio obbediente, incastonato nella formula “…discese dal cielo… ” ed “… è salito al cielo…”. Si tratta dell’abbassamento e dell’esaltazione della Seconda Persona della Trinità, mediatore tra Dio e gli uomini, e liturgicamente parlando della parabola che si instaura tra il periodo del “tempo di Natale” e quello “di Pasqua”.
S. Paolo Apostolo esprime magistralmente questo dinamismo nell’inno della lettera ai Filippesi per cui abbiamo, attraverso la kenosi, la discesa che si traduce in un avvicinamento massimo di Dio alla condizione umana: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini … facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce».
E poi abbiamo la salita, che diventa esaltazione, glorificazione e ricapitolazione di tutto in Cristo, a favore del genere umano di cui Egli è il primogenito: «Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre».
Nella figura del Mediatore, Gesù Cristo, abbiamo una salvezza che si attua storicamente, nel tempo, (il Verbo si fa carne nel ventre della Vergine Madre, si rende tangibile, visibile, udibile come ogni altra creatura, patisce sotto Ponzio Pilato, muore per mano dei suoi crocifissori…). Ma questa salvezza ha un compimento metastorico/escatologico, fuori/oltre il tempo (il Verbo, preesistente ad ogni tempo, ritorna alla vita tramite la risurrezione, così che la culpa dell’uomo è resa felix, come si canta la notte di Pasqua con l’Exsultet, e poi ancora Gesù Cristo ascende alla destra del Padre per essere glorificato, e tornerà alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti).
Nel dinamismo di discesa e salita al cielo si fonda quella speranza richiamata dal prossimo giubileo e tematizzata nella sua bolla di indizione, rilasciata proprio il 9 maggio, Solennità dell’Ascensione, dal titolo Spe non confundit. Le realtà terrestri, e in primis l’uomo, sarebbero perite se non fossero state “visitate e redente” dall’Uomo-Dio. Si tratta di un’azione paradossale, che sembra poco efficace nella sua esecuzione che si avvale “della debolezza della carne”, ma invece dice molto sull’essenza di Dio che è agape, comunione, condivisione, misericordia. La bolla suggerisce di trasformare i segni dei tempi, quelli che vivono gli uomini, in segni di speranza, che per tutti rimandano alla salvezza che viene dal Cielo. Questa trasformazione si basa proprio sulla speranza riposta in Gesù Cristo, che «non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino» cf. Rm 8, 35.37-39.
